Venerdì scorso alcuni organi di informazione, tra cui in Italia in particolare La Stampa, hanno riportato con grande evidenza la notizia che i rover della Nasa Spirit e Opportunity, che ormai da sei anni operano sul pianeta rosso, avrebbero trovato all’interno di depositi di gesso marziani dei fossili «molto simili a quelli che si trovano nei nostri oceani, come il phytoplancton e i cyanobatteri», secondo quanto dichiarato da uno dei più grandi esperti di bioastronomia, Bill Schopf, dell’Università della California di Los Angeles, durante la Astrobiology Science Conference 2010 che si sta tenendo a Houston, in Texas.



Se vera, si tratterebbe indubbiamente di una scoperta straordinaria, giacché l’esistenza di forme di vita, per quanto semplici, in un luogo così vicino a noi (su scala cosmica praticamente “nel giardino di casa nostra”) significherebbe che la vita è un fenomeno estremamente comune nell’Universo.

Per convincercene immaginiamo di lanciare alcune monete a caso su un campo di calcio: la probabilità che due di esse cadano con i bordi a contatto è pressoché nulla se sono poche, mentre cresce sempre di più col crescere del loro numero, fino a diventare virtualmente certa quando le monete sono così tante da ricoprire quasi interamente il terreno. In tal caso, anche l’esistenza di forme di vita più complesse, incluse forme di vita intelligente paragonabili alla nostra, sarebbe, se non proprio certa, quantomeno molto probabile.



Purtroppo però la notizia appare frutto di un equivoco (probabilmente causato da un’affrettata lettura da parte di alcuni corrispondenti di un “lancio” del Sun) e la scoperta reale, per quanto interessante, è ben più modesta: Schopf infatti si riferiva a fossili scoperti all’interno di depositi di gesso terrestri.

La cosa è tuttavia promettente per il fatto che, come egli stesso ha aggiunto, «fino a questo momento nessuno aveva ipotizzato che il gesso potesse contenere forme di vita», e sulla superficie di Marte sono appunto presenti vasti depositi di gesso, su uno dei quali, per di più, si trova attualmente proprio Opportunity. Ciò significa quindi che, se su Marte è esistita un tempo la vita, allora il robottino della Nasa si trova su un terreno favorevole, o quantomeno non sfavorevole, per scoprirne le tracce.



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Questo, almeno, in linea di principio. Infatti, come sempre, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Che in questo caso è un mare, o piuttosto un oceano, di spazio. Anzitutto, infatti, per ottenere le sospirate prove Opportunity dovrebbe avere il gran colpo di fortuna di imbattersi in un punto in cui i fossili (sempre ammesso che esistano, ovviamente) affiorino in superficie, dato che la sua capacità di scavo è limitata a pochi millimetri.

 

Inoltre, anche ammettendo che riuscisse a trovarli e a inviarne delle foto sulla Terra, questo ben difficilmente basterebbe a darci la certezza che si tratti realmente di fossili e non (fatto non raro) di formazioni minerali ad essi somiglianti. Come ha detto il responsabile scientifico dei rover, Steve Squyres, «l’unico modo di essere sicuri che c’è vita su Marte sarebbe di portare indietro dei campioni di rocce marziane» (missione che la Nasa sta effettivamente progettando); e non è neanche detto che basterebbe, considerando che ancor oggi, a distanza di 25 anni, non c’è accordo sulla vera natura dei presunti fossili della celebre meteorite marziana ALH84001.

 

Infine, anche se l’esistenza di vita su Marte sarebbe comunque una scoperta straordinaria, ciò che noi vorremmo davvero trovare è una forma di vita con un’origine indipendente da quella terrestre: solo in questo caso infatti si potrebbero trarre le conseguenze epocali di cui sopra. Le due cose però non coincidono: è ormai provato, infatti, che la vita può “saltare” da un pianeta all’altro a bordo delle meteoriti, giacché, come ha dimostrato la bioastronoma tedesca Gerda Horneck, i batteri sono capaci di resistere per migliaia di anni perfino nelle terribili condizioni dello spazio interstellare.

 

Quindi neanche l’eventuale scoperta di fossili marziani, per quanto eccezionale, basterebbe da sola a stabilire il punto più importante di tutta la questione, che potrebbe essere provato definitivamente solo dall’analisi diretta di un organismo marziano che dimostri l’incompatibilità della sua composizione chimica con quella degli organismi terrestri.

 

A meno di un gran colpo di fortuna nella scelta dei campioni da riportare sulla Terra nelle missioni di cui sopra, ciò non potrà essere fatto fino a quando non sarà inviata una missione umana su Marte. Da questo punto di vista, la rinuncia a tornare sulla Luna recentemente annunciata da Obama per concentrarsi direttamente su Marte, anche se dettata principalmente da ragioni economiche, potrebbe rivelarsi positiva, perché molti scienziati erano scettici sulla reale utilità di questa tappa intermedia.

 

In conclusione, stiamo facendo indubbiamente dei grandi passi avanti verso una migliore comprensione dell’origine della vita e del suo ruolo all’interno del grande affresco dell’evoluzione cosmica, ma la soluzione del mistero non è ancora dietro l’angolo.