Da quest’anno la contrada Furfulera in Val Tartano, un antico villaggio in pietra di origine medievale, abbandonato da oltre 250 anni, torna a essere un insediamento permanente. Una giovane coppia di Campo, il nucleo principale della valle, ha deciso di stabilirvisi, ora che sono ultimati i lavori di restauro.

Tutto è iniziato nel 1993, quando un gruppo di amici dell’associazione ambientalista “L’Umana Dimora” ha deciso di impegnarsi per contrastare quello che sembrava essere un abbandono irreversibile. Il venir meno della società tradizionale alpina, sconfitta dall’urbanizzazione del secondo dopoguerra, ha seminato purtroppo la montagna di vere e proprie piccole Pompei, tracce di un secolare ed equilibrato rapporto dell’uomo con la realtà. In pochi hanno resistito a un mutamento sociale veloce e, in certi casi, drammatico.



Le strade che dovevano portare turismo e progresso hanno spesso ottenuto l’effetto opposto, facilitando l’esodo verso il fondovalle e il miraggio di un facile benessere economico. Intere aree alpine, un tempo intensamente utilizzate per l’alpeggio e per altre attività dai contadini pastori sono oggi deserti o parchi popolati da volpi e serpenti e, più recentemente, anche da lupi e orsi. Gli antichi villaggi vengono demoliti con le ruspe o trasformati completamente dalle immobiliari per farne seconde case: anche gli edifici più interessanti dell’architettura alpina subiscono lo stesso destino e i nuclei storici divengono banali nuclei di bilocali.



Non era dunque scontato che questo villaggio potesse riprendere vita, mantenendo le sue caratteristiche originarie, anche se la Val Tartano rappresenta – in provincia di Sondrio – un piccolo punto di resistenza e di continuità della cultura alpina tradizionale. Lo stato d’anime della parrocchia di S. Agostino di Campo del 1732 riporta l’esistenza di tre nuclei familiari, per un totale di 14 abitanti, ma già nel corso dell’Ottocento, le condizioni difficili, a 1150 metri di quota, ne fanno una stazione temporanea della monticazione primaverile. Negli anni in cui si cominciò a pensare a un recupero alcuni edifici erano bruciati per un incendio e la maggior parte degli altri iniziava a deteriorarsi irrimediabilmente: le coperture stavano per cedere sotto il peso delle pesanti lastre di pietra.

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Oggi, dopo 15 anni di impegno, senza alcun aiuto pubblico, lottando tra mille difficoltà e grazie al contributo determinante di una impresa privata (la Comer SpA di Sondrio), il villaggio è stato completamente recuperato e una parte è destinata al turismo culturale (4 appartamenti e un salone su un totale di 15 unità abitative). Le case, con antichi portali in pietra e con le tipiche murature della montagna orobica, hanno conservate intatte le loro caratteristiche originarie, compresi i solai in legno e i manti in piöde selvatiche.

 

Nel salone della contrada, dedicato a due sostenitori dell’iniziativa, ora purtroppo scomparsi, il ricercatore marchigiano Franco Cesetti e l’economista Marco Martini, trova ora sede l’associazione Furfulera, per lo studio, la conservazione e la valorizzazione delle dimore rurali in Italia. La Furfuléra è dunque oggi, per la Valtellina e per la Lombardia, un esempio di alternativa di sviluppo. Si può ricominciare dalle radici, dal rispetto del paesaggio e dei segni che in esso, varie generazioni, hanno lasciato, con il lavoro dei campi e con l’allevamento del bestiame.

 

I recenti appuntamenti nazionali e mondiali dedicati all’ambiente sollecitano scelte morali del genere: il destino di questo villaggio è cambiato grazie al sacrificio e alla decisione radicale di un gruppo di amici che non vedrà mai, probabilmente, un ritorno economico dell’investimento fatto. D’altro canto l’impegno per un modello di sviluppo diverso (richiamato più volte dalla dottrina sociale della Chiesa e su cui si impernia l’enciclica Caritas in veritate) non può fondarsi solo sul profitto ma richiede una “economia della fraternità e della gratuità” tesa alla trasformazione della dinamica sociale ed economica in atto.

 

Troppe forze tendono a condizionarci in modo da limitare il nostro rapporto con il reale, il contributo creativo che ciascuno di noi può dare al mondo che ci circonda. È lontano il grido lanciato agli inizi del ‘900 dal filosofo Edmund Husserl: “Alle cose stesse !”. Il lavoro di generazioni che hanno terrazzato le montagne e la nuda roccia e cosparso le colline di santuari sembra oggi lontanissimo: le poche ore libere da una occupazione spesso alienante finiscono in una realtà virtuale, in un social network o in una palestra. Eppure chi vive a contatto con la bellezza dei paesaggi italiani e non ha l’orizzonte chiuso da un cortile o da un capannone industriale, è facilitato a comprendere come sia cruciale riproporre il senso del nostro rapporto col reale.

 

Il paesaggio intorno a noi, che sia degradato o di una bellezza straordinaria, non è comunque una cosa, un oggetto, bensì esprime questo rapporto, anzi esprime la sedimentazione, da parte di varie generazioni, del rapporto con il mondo in cui sono vissute. È questo il motivo per cui un buon vino e un buon formaggio fanno parte di un luogo e della sua identità: non potranno mai nascere in fabbrica, essi sono il prodotto vivo del rapporto di alcuni uomini con il proprio territorio. Questa identità non è genetica, non è data una volta per tutte: deve essere conquistata da ogni generazione. Da qui l’importanza di avviare un grande lavoro educativo per riscoprire la qualità dei luoghi.

 

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Il mondo non è una realtà inanimata, tutta uguale, riproducibile. Se così fosse sarebbe un mondo deludente, disperato, che non risponde all’uomo e che mai potrà creare né paesaggio, né cultura. Per fortuna il cosmo è ricco di segni, di luoghi con qualità differenti, di quei punti fisici che Mircea Eliade ha chiamato ierofanie (manifestazioni del sacro) che rendono lo spazio reale così diverso dallo spazio cartesiano. Tutta la società europea tradizionale è vissuta valorizzando questa differenza.

 

Dall’homo viator medievale che ha strutturato la società lungo gli itinerari tra i grandi capisaldi ierofanici del Mediterraneo (Roma, Gerusalemme, Santiago de Compostela), alle successive culture dei santuari, delle apparizioni, dei sacri monti. L’uomo delle società tradizionali ha sempre naturalmente vissuto questa dinamica di scoperta e di custodia nel rapporto con la propria terra, cosciente che la perdita di questa tensione apre ad un solo orizzonte, quello del disordine e del caos.

 

Il villaggio della Furfulera in Val Tartano è certo una infinitesima esperienza ma, nel suo piccolo, resta una sfida alla responsabilità di ciascuno nel custodire il territorio, nel costruire nuovi paesaggi, un passo per un nuovo umanesimo in questo avvio di XXI secolo.

 

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