Cita spesso un proverbio africano che ben sintetizza la sua esperienza: «Per quanto grande sia il baobab, ha sempre un piccolo seme come genitore». È Venanzio Vallerani, agronomo, specializzato negli ambienti tropicali, ideatore dell’omonimo metodo che promette di “rinverdire le terre degradate”. Una promessa già in parte mantenuta. Il baobab di Vallerani ha infatti un tronco robusto e alcuni rami resistenti in Africa e in Cina. Come ci ha raccontato incontrandolo a Milano dove ha partecipato nei giorni scorsi al Festival Internazionale dell’Ambiente.
La sua attività in questa direzione è iniziata sul finire degli anni ’80, sulla base della convinzione che «l’accelerazione del degrado ambientale del pianeta non si vince con le conferenze, ma soltanto con azioni immediate e su grandissima scala e che troppo tempo è già stato perduto e troppi sono gli uomini che soffrono». Vallerani era stato incaricato dalla FAO di collaborare alla formulazione di progetti di miglioramento della produzione zootecnica in Niger e in Burkina Faso e di dirigerne uno a Capo Verde. Qui soprattutto se era reso conto di «quali erano le vere priorità per gli uomini e per il pianeta».
Poi l’idea fulminante. Osservando la difficoltà e la lentezza dei lavori di preparazione dei terreni, il nostro agronomo ha preso un piccone e ha provato a scavare dei solchi (lui le chiama semilune) per piantare alberi. Il responso del test è stato eloquente: la durezza dei suoli era tale da rendere l’operazione difficile e dispendiosa in tempo ed energia. Ecco allora affiorare le linee per l’innovazione tecnologica. «Mi furono subito chiare alcune esigenze. Bisognava meccanizzare il lavoro di scavo; si doveva poter ritenere tutta la scarsa pioggia; bisognava catturare la scarsa sostanza organica lasciata in superficie dal bestiame; infine bisognava operare velocemente e creare delle speciali fessure perché le radici potessero andare in profondità e stare al riparo dal cocente Sole africano».
Continua la lettura dell’articolo con l’intervista a Venanzio Vallerani clicca su >> qui sotto
In pratica si tratta di una particolare versione automatizzata della tecnologia di water harvesting (raccolta di acqua) potenziata dai due modelli di aratro ideati da Vallerani e trainati da trattori. I modelli sono stati denominati dall’ideatore come il "delfino" e il "treno" e consentono una forte scissura e un intenso scuotimento del terreno riuscendo a romperlo e consentendo così alla pioggia di irrorarlo e restare nei bacini. Ed è proprio la modalità di raccolta dell’acqua l’altra importante componente dell’invenzione: quando cade quella poca pioggia tipica delle regioni desertiche, non ne viene sprecata nemmeno una goccia poiché o cade direttamente nelle semilune create dal "delfino", o viene indirizzata nei solchi creati dal "treno" e divisi in modo tale da non permettere lo scorrimento dell’acqua.
Ma non è solo questione di macchine: bisogna scegliere la zona adatta, bisogna seminare certe piante e in un certo modo. Qui entra in campo più direttamente l’agronomo e l’attento conoscitore degli ambienti tropicali. Così Vallerani può annunciare, non senza soddisfazione, una serie di risultati notevoli: «Lavorando in media 180 giorni l’anno un aratro dissoda circa 1500-2000 ettari, cioè realizza un milione di semilune (Delfino) o 1,5 milioni di micro bacini (treno). Con una pluviometria di 150-300 mm/anno, i solchi così realizzati raccolgono tra i 2 e i 4 milioni di metri cubi di acqua piovana, che aumentano considerevolmente le produzioni agricole e silvo-pastorali e la ricarica della falde freatiche. Si possono allora piantare oltre un milione di piante da seme e creare in pochi anni una vera foresta. Se invece si seminano miglio, sorgo o leguminose, le produzioni ottenute sono tali da assicurare l’alimentazione di mille famiglie».
Quanto ai costi? «A seconda delle caratteristiche del terreno e della distanza fra le linee di lavorazione, il costo dell’intervento va dai 40 agli 80 euro l’ettaro. Naturalmente si deve stimare, congiuntamente all’attrezzatura, la manodopera che è variabile a seconda dei paesi e dei momenti storici; ma l’investimento viene ripagato sette-otto volte dai benefici che si riescono a trarre dalla terra con questo sistema. C’è da aggiungere che la manutenzione richiesta è pressoché nulla in quanto la natura africana, una volta stimolata, cresce rigogliosa da sé e poiché le buche scavate rimangono tali per più di sette anni, anche se l’effetto maggiore si ha logicamente il primo anno, con la semina».
Continua la lettura dell’articolo con l’intervista a Venanzio Vallerani clicca su >> qui sotto
E non ci sono solo le desertiche pianure africane. Dal 2002 la scena si è spostata a oriente e Vallerani ha iniziato a occuparsi delle desolate montagne della Mongolia Interna e delle possibilità del suo rimboschimento. Nel 2005 è partito un progetto per la lotta alla desertificazione, con un accordo tra il nostro Ministero dell’Ambiente e il Ministero delle Foreste cinese; e Vallerani era in pole position. Anche qui grandi risultati e riconoscimenti ufficiali per l’inventore. Vallerani non riesce a nascondere la commozione ricordando i momenti che l’hanno visto, nel 2007, insignito del titolo di “Honorary Professor in Desertification Combating” dal Ministero delle Scienze Forestali della Mongolia Interna.
Per concludere, un numero: ad oggi il Sistema Vallerani è stato utilizzato in Senegal, Burkina, Niger, Ciad, Sudan, Kenia, Giordania, Egitto, Marocco, Tunisia, Siria e Cina su una superficie globale di circa 110.000 ettari. Un segnale positivo, che si spera venga raccolto con la dovuta attenzione da quanti domani celebreranno al Giornata Mondiale per la Lotta alla Desertificazione.
(A cura di Mario Gargantini)