Con l’avvicinarsi della Giornata Mondiale dell’Ambiente (WED – World Enviroment Day, 5 giugno) si intensificano manifestazioni e proclami sui numerosi temi che si incrociano attorno alle sorti di questo nostro fragile Pianeta.

Quest’anno l’interesse sembra assorbito dal problema della tutela della biodiversità, ma il grande dibattito sui cambiamenti climatici che aveva dominato le scorse edizioni è tutt’altro che superato. Anche perché i dati continuano a ribadire la complessità delle relazioni tra i fattori umani e quelli naturali nel condizionare il clima planetario.



Ne è convinto Giuseppe Orombelli, professore Emerito di Geografia Fisica e Geomorfologia nell’Università di Milano-Bicocca e accademico dei Lincei, che ha offerto una puntuale panoramica nel corso della recente giornata su “L’impegno delle Scienze Ambientali” organizzata dal dipartimento di Scienze dell’Ambiente e del Territorio del medesimo Ateneo.



«Sono bastati un inverno freddo e nevoso e una primavera molto piovosa in gran parte dell’Europa e del Nord America per fare riaffiorare nell’opinione pubblica e nella stampa l’idea che il cambiamento climatico in corso si sia arrestato e a ridar fiato a quanti lo negano o ritengono rientri nei fatti interamente naturali».

L’invito di Orombelli è a non farsi ingannare da condizioni meteorologiche locali e temporali. Il cambiamento climatico è tuttora in atto e sono numerosi i sintomi di un aggravarsi dei suoi effetti. Tra gli studiosi del clima aumenta inoltre il convincimento che la tendenza attuale non si possa spiegare senza ricorrere alla forzante umana: le cosiddette forzanti naturali (attività solare, attività vulcanica esplosiva, variabilità interna al sistema, ecc.) ovviamente agiscono, ma con effetti minori e temporanei. Spiegazioni differenti non sono state avanzate o non hanno retto alle obiezioni.



Nel passare in esame i principali fattori in gioco, non si può non partire dalla temperatura.Stando alle elaborazioni del Goddard Institute for Space Studies della Nasa il quadrimestre gennaio-aprile 2010 è stato il più caldo dal 1880, particolarmente nell’Artico e in un’ampia fascia intertropicale.

Temperature più fredde della media di riferimento si sono avute in una ristretta fascia che si estende dalla Siberia centrale all’Europa all’America centrosettentrionale. Caratteri simili ha avuto il mese di dicembre 2009. L’anno 2009, secondo l’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO), è stato il quinto anno più caldo dal 1850: la temperatura media annua globale, dopo tre anni di calo, è tornata a crescere.

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Nel decennio 2000-2009, l’aumento della temperatura si è temporaneamente attenuato. Periodi simili, della durata di circa un decennio, con temperature stazionarie, si sono prodotti anche nei decenni scorsi, nell’ambito di una tendenza di più lungo periodo di aumento della temperatura.

 

Comunque la temperatura media del decennio 2000-2009 è stata più elevata di quella del decennio precedente, a sua volta più elevata di quella del decennio ancora precedente. Anche sopra l’Antartide, il pozzo freddo del pianeta, le temperature superficiali sono in aumento. Dal 1959 al 2008 la temperatura superficiale delle acque oceaniche è quasi ovunque in aumento; anche di 2 °C in 50 anni, come lungo le coste sudoccidentali della Groenlandia.

 

L’altro tema caldo del dibattito è quello della CO2 la cui concentrazione atmosferica aumenta al ritmo di quasi 2 parti per milione l’anno. In aprile la concentrazione globale mensile ha superato le 390 ppm (+ 23% dall’inizio delle misure sistematiche nel 1958). Rispetto al valore pre-industriale (280 ppm), misurato nelle bolle d’aria nelle carote di ghiaccio, la concentrazione è aumentata del 38%.

 

Le emissioni di CO2 sono probabilmente un poco diminuite nel 2009, a causa della crisi economica, ma vi sono evidenze di una diminuzione dell’assorbimento della CO2 atmosferica nelle acque oceaniche e nella biosfera. Anche gli altri gas serra sono in aumento, così che si calcola che il forzante radiativo di tutti gas serra sia aumentato dal periodo preindustriale di circa il 60%.

 

Orombelli passa poi a esaminare la situazione dei ghiacci. I ghiacciai montani sono quasi ovunque in accentuato regresso. Ghiacciai simbolo, quale quelli residui sul Kilimajaro, hanno subito complessivamente dal 1912 una riduzione areale dell’85%. Il maggiore di essi esiste almeno da 11.700 anni ed è sopravvissuto a crisi di siccità durate anche alcuni secoli.

 

I ghiacciai polari subiscono anch’essi perdita di massa: misure gravimetriche satellitari portano a stimare, dal 2002 al 2009, una perdita di 1500 miliardi di tonnellate di ghiaccio in Groenlandia e di 800 miliardi di tonnellate in Antartide. Negli ultimi due anni, in Groenlandia, l’area in accentuata perdita si sarebbe allargata, dalla costa occidentale lambita dalle acque più calde, a quella orientale. L’estensione minima dei ghiacci marini artici a settembre è diminuita del 30% in trent’anni. Nel 2008 e nel 2009, per la prima volta, si sono aperti insieme il Passaggio a Nord Ovest e quello a Nord Est.

 

Quanto ai mari, si può dire che il livello medio globale degli oceani negli ultimi anni ha raggiunto un tasso annuo di risalita di 3,2 mm. In alcune aree la risalita è dell’ordine di oltre 12 mm all’anno (Pacifico occidentale), mentre in altre il livello si abbassa anche di oltre 5 mm all’anno. Orombelli fa notare che l’aumento della temperatura media annua globale, delle emissioni di CO2 e della risalita del livello del mare si collocano presso il limite superiore (più pessimistico) della forbice delle proiezioni effettuate dall’IPCC.

 

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Nel frattempo si ampliano e si perfezionano i metodi di indagine e gli strumenti a disposizione. Gli studi paleo climatici, ad esempio, danno un quadro completo della variabilità climatica naturale alle diverse scale di ampiezza e temporali e sono essenziali per interpretare il funzionamento del sistema climatico, per discriminare le diverse forzanti, i meccanismi di feedback e i cosiddetti “tipping point”, ovvero soglie di passaggio improvviso da una condizione ad un’altra di equilibrio. Hanno mostrato che il sistema climatico ha subito ripetutamente cambiamenti quasi improvvisi (con durata anche di sole poche decine di anni); da notare che tali cambiamenti sono avvenuti in opposizione di fase nei due emisferi.

 

Lo studio delle carote di ghiaccio ha mostrato che la concentrazione attuale di CO2 e metano nell’atmosfera non ha mai raggiunto i valori attuali negli ultimi 800 mila anni, né mai si è verificato per sole cause naturali un aumento così repentino (+ 100 ppm in circa 200 anni).

 

La riflessione conclusiva dello scienziato evidenzia l’urgenza di intensificare le ricerche. «Le proiezioni per il futuro sono ovviamente basate su ipotesi, ma rappresentano l’espressione delle conoscenze attuali. Nel tempo alcuni aspetti sono stati chiariti, mentre nuovi problemi sono apparsi. Sono necessari studi e ricerche sempre più agguerriti per spingere le nostre conoscenze a un grado maggiore di approssimazione alla realtà: lo studio del sistema climatico, del suo funzionamento, delle interferenze umane, è indubbiamente una delle sfide scientifiche più ardue del nostro tempo».

 

(a cura di Mario Gargantini)

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