La strada verso il computer sicuro e superveloce registra un importante passo avanti: una nuova tecnologia di immagazzinamento dei dati, primo stadio necessario per lo sviluppo dei computer del futuro, i cosiddetti computer quantistici.
Questo tipo di elaboratori richiederà dei supporti di memoria in grado di immagazzinare in modo efficiente gli stati quantistici, supporti denominati appunto “memorie quantistiche”. Una tecnica studiata per realizzare simili memorie consiste nell’usare la luce come veicolo dell’informazione e “imprigionarla” in un materiale, per poi ricavarla all’occorrenza.
Un gruppo di ricercatori facenti capo al fisico Morgan P. Hedges presso l’università australiana di Canberra è proprio riuscito a fermare la luce come richiesto da questo tipo di memorie (la ricerca è descritta nell’articolo “Efficient quantum memory for light”, Nature 465, 1052). Ma cosa c’entra la luce con dei supporti per salvare file e documenti? E che cosa significa “fermare la luce”? La spiegazione viene da lontano.
Da sempre, i campi elettromagnetici (come le onde radio, il campo dei telefoni cellulari, ecc.) sono il mezzo che permette di trasmettere informazione. Un caso particolare è la luce. Nelle comunicazioni classiche, i bit (l’unità di misura dell’informazione) sono codificati in impulsi luminosi, che sono rilevati, convertiti in segnali elettrici e successivamente immagazzinati sotto forma di cariche o stati magnetici di celle di memoria.
Il problema è che in seguito all’impetuoso sviluppo dell’informatica ci si sta avvicinando sempre di più a un livello di miniaturizzazione di questi componenti per cui i metodi classici non sono più validi; d’altra parte stanno emergendo le esotiche proprietà della materia descritte dalla meccanica quantistica. Quando si parla infatti di comunicazione quantistica, s’intende che l’informazione è codificata in stati quantici che, da una parte, sono più “capienti” (ovvero contengono molte più informazioni di uno stato classico), ma dall’altra non possono essere immagazzinati in modo tradizionale: è necessario “fermare la luce”.
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In effetti, dietro la scienza delle memorie quantistiche s’intrecciano le più affascinanti teorie della fisica. La relatività di Einstein determina un limite massimo invalicabile alla velocità della luce, ma non dice nulla sulla sua velocità minima. È noto che, in mezzi come il vetro, la luce può rallentare di circa un terzo dei suoi 300.000 chilometri al secondo, ma si tratta pur sempre di velocità formidabili.
Il metodo usato da Hedges sfrutta invece un fenomeno detto “trasparenza elettromagneticamente indotta”. Esso consiste nella proprietà dei materiali opachi di diventare trasparenti sotto l’effetto di un opportuno raggio laser ausiliario. È stato dimostrato che questo raggio rallenta enormemente la luce incidente, fino a farla fermare dopo averlo spento in modo estremamente lento. A questo punto il materiale contiene il pacchetto di luce nello stato quantistico in cui era stato preparato precedentemente: contiene cioè l’informazione che vogliamo conservare.
Ma una volta che abbiamo imprigionato questa informazione nel materiale, come facciamo a ritirarla fuori di nuovo? Il problema è tutt’altro che semplice, data la fragilità di uno stato quantico. Secondo il principio d’indeterminazione di Heisenberg, infatti, esiste un’incertezza intrinseca nella determinazione delle grandezze fisiche, che gioca un ruolo molto significativo nella descrizione del sistema.
Per questo, misurare una grandezza, ovvero eliminarne l’incertezza, provoca inevitabilmente un cambiamento dello stato del sistema. È fondamentale quindi poter ritirare il pacchetto di luce immagazzinato senza misurarlo, preservando quindi il suo stato. Per lo stesso motivo, caratteristica tipica di questa memoria quantistica è che l’informazione può essere letta solo una volta, rendendo tale tecnica estremamente interessante nel campo della sicurezza.
Finora, il problema di richiamare la luce immagazzinata senza alterarne lo stato quantistico aveva poca efficienza: meno del 17% rimaneva intatto. Gli esperimenti si basavano su vapori atomici a bassa temperatura come mezzo per imprigionare la luce. Il gruppo di ricercatori facenti capo all’università di Canberra, invece, ha sviluppato tecniche basate su materiali allo stato solido, come alcuni tipi di cristalli. Ebbene, i risultati sono molto buoni: le memorie ottenute presentano un’efficienza che si aggira intorno al 69%.
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Questa tecnica permetterà, inoltre, di verificare alcune leggi di fisica fondamentale, come il bizzarro fenomeno dell’interazione fra correlazione quantistica (quantum entanglement) e teoria della relatività. Si potrebbero correlare due stati quantistici salvati su due memorie diverse, su cristalli diversi. A questo punto, secondo la meccanica quantistica, leggere uno dei due stati dovrebbe alterare immediatamente anche l’altro, anche se si trova molto distante dal primo.
Secondo la relatività, il tempo trascorso da ciascuna memoria dipende dal loro movimento. Per questo, si potrebbe capire in che modo queste due fondamentali proprietà possono coesistere. Sarebbe davvero un bel risultato scientifico, un primo regalo dai computer quantistici prima ancora della loro nascita.