È possibile scoprire cosa il prossimo futuro riserverà all’ecosistema oceanico studiando il lontano passato del Pianeta. È ciò che ha fatto un gruppo di geologi dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con colleghi dell’ETH di Zurigo, che hanno ricostruito una “crisi” geologica avvenuta 120 milioni di anni fa. I geologi, come viene descritto in un articolo pubblicato sull’ultimo numero di Science, hanno analizzato i residui fossili di un evento catastrofico durante il quale straordinarie eruzioni vulcaniche hanno introdotto in atmosfera enormi quantità di CO2 (pari a 2000-3000 ppm) facendo scendere il pH oceanico a circa 7,5: un livello di acidificazione decisamente superiore a quello odierno, anche se raggiunto a un tasso di crescita molto più lento.
Lo studio ha dimostrato che, pur subendone gli effetti nella sua totalità, la vita nell’oceano è in grado di adattarsi alla progressiva acidificazione associata a riscaldamento globale ed eutrofizzazione. Così Elisabetta Erba, che guida il gruppo di Milano, ha spiegato a ilsussidiario.net i particolari e il valore di queste ricerche.
Che cosa vi ha spinto a esaminare quei particolari fossili?
Lo studio dei resti fossili di alghe coccolitoforidi (denominati nannofossili calcarei) è da sempre la mia specializzazione. In particolare, mi sono sempre dedicata ai nannofossili più antichi, cioè dell’intervallo Triassico superiore-Giurassico-Cretacico (220-65 milioni di anni fa). Utilizzo i nannofossili calcarei sia per datare le rocce sulla base di comparse ed estinzioni sia per ricostruire le condizioni oceanografiche (temperatura, fertilità, chimismo) e climatiche del passato. Infatti, le alghe coccolitoforidi sono organismi marini unicellulari che producono placchette di calcite (coccoliti) per ricoprire la superficie cellulare con una sorta di guscio (coccosfera). Le varie specie producono coccoliti di forme e dimensioni diverse e l’abbondanza delle varie specie è controllata dalle condizioni chimico-fisiche delle acque superficiali. Dopo la morte, i gusci cadono verso il fondale oceanico a costituire un sedimento calcareo che ricorda il calcare che si deposita nei nostri elettrodomestici. Tale sedimento è molto comune nel record geologico a partire da circa 200 milioni di anni fa; l’introduzione, verso gli anni Sessanta, di microscopi ottici polarizzanti ad alti ingrandimenti (almeno 1000) e dei microscopi elettronici a trasmissione e scansione ha fornito ai micropaleontologi gli strumenti necessari per investigare resti fossili così piccoli (2-10 micron).
E come mai in quella particolare zona?
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Helmut Weissert (di Zurigo) e io collaboriamo da anni per datare, caratterizzare e capire cambiamenti globali registrati nelle rocce. Tra questi, già da tempo ci stiamo occupando dell’evento Anossivo Oceanico dell’Aptiano, un caso di cambiamento ambientale legato a un eccesso di CO2 vulcanogenica. Circa un anno fa, in modo casuale, analizzando dei campioni per datarli, mi sono accorta che alcuni esemplari di nannofossili mostravano caratteristiche dimensionali e morfologiche anomale. Sospettando un’influenza da parte del chimismo delle acque, abbiamo intrapreso questo studio particolare per analizzare i potenziali effetti dell’acidificazione oceanica (dovuta all’eccesso di CO2) sulla calcificazione di coccoliti che è fortemente ostacolata se le acque diventano acide.
Le sezioni studiate sono state selezionate perche continue, complete e ben datate; esse inoltre sono localizzate nell’Oceano della Tetide e nell’Oceano Pacifico (il più grande oceano anche durante il Cretacico) e quindi ci possono fornire i dati necessari per individuare cambiamenti locali, regionali e globali.
Come si è svolta la vostra ricerca?
Abbiamo pianificato una ricerca multidisciplare basata sullo studio sia dei nannofossili calcarei (a Milano) che della geochimica (a Zurigo) degli stessi campioni. I campioni (circa 10 grammi) sono stati prelevati ogni 2-20 cm; ciascun campione è stato diviso a metà. Lo studio dei nannofossili è stato condotto su vetrini (polvere di roccia montata su un vetrini) e in sezioni sottili; abbiamo sia contato l’abbondanza delle singole specie che misurato molti esemplari di forme specifiche. L’analisi è stata condotta principalmente con un microscopio ottico polarizzato, a 1250 ingrandimenti; alcuni campioni sono stati anche analizzati tramite un microscopio elettronico a scansione. Le analisi geochimiche sono state fatte tramite uno spettrometro di massa che permette di calcolare il rapporto isotopico degli isotopi stabili (nel nostro caso) di carbonio e ossigeno.
In totale la ricerca è stata ultimata in circa 10 mesi.
Quali le conclusioni cui siete giunti?
I risultati della nostra ricerca indicano che: (a) le risposte delle alghe coccolitoforidi all’acidificazione sono state varie: alcune forme sono state fortemente influenzate, altre evidentemente hanno tollerato meglio l’acidità dell’oceano e altre ancora sembrano essere state immuni; (b) i nannofossili più grossi e più calcificati sono diventati sempre più rari; (c) sorprendentemente abbiamo trovato, per alcune specie, nannofossili nani; (d) la specie più diffusa negli oceani del Cretacico è rappresentata da molti nannofossili malformati; (e) l’acidificazione si è propagata dalle acque superficiali fino alle acque più profonde e abbiamo calcolato il tempo intercorso tra l’inizio dell’acidificazione nella zona fotica (variazioni dei nannofossili) e l’acidificazione delle acque di fondo; la mancanza di ossigeno al fondo globale (anossia) si è sviluppata quando l’acidificazione dell’oceano era già diffusa ed è rimasta anche dopo il recupero dell’ecosistema susseguente la massima acidificazione.
Quali analogie si possono tracciare rispetto alla situazione attuale e quali le principali differenze?
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Alcuni laboratori specializzati stanno conducendo esperimenti per misurare gli effetti dell’aumento di CO2 sulla attuale produzione di coccoliti. I nostri risultati mostrano analogie con quanto riscontrato sulle specie viventi: gli effetti sono diversificati, con parziale riduzione della quantità di calcite prodotta e malformazione selettiva. I nostri dati “geologici” quindi possono essere utilizzati per validare quanto riscontrato negli oceani attuali.
La principale differenza sono le scale temporali: mentre gli oceanografi e i biologi marini operano su intervalli di tempo da giornalieri ad annuali a decennali, noi geologi abbiamo una prospettiva lunga migliaia di anni. Per la prima volta, siamo riusciti a quantificare la progressiva acidificazione dalle acque superficiali a quelle profonde che ancora non si è verificata negli oceani attuali probabilmente perché occorrerà molto tempo.
La nostra ricerca geologica ci ha permesso di ricostruire un modello 4D che potrebbe essere considerato “l’anello mancante” tra i cambiamenti globali in atto e l’ecosistema oceanico del futuro.
Quali indagini bisognerà svolgere per valutare la capacità o meno di adattamento dell’ecosistema oceanico moderno?
L’acidificazione che caratterizza gli oceani attuali è monitorata da gruppi internazionali di oceanografi e biologi marini; alcuni progetti sono dedicati alla comprensione degli effetti dell’acidificazione sui organismi marini che producono gusci/scheletri calcarei. Per quanto riguarda la nostra ricerca, ci stiamo già dedicando allo studio dettagliato e multidisciplinare di altri episodi di acidificazione del passato. Nei prossimi anni cercheremo di capire se gli stessi effetti si sono ripetuti in tempi diversi oppure se gli ecosistemi hanno reagito o subito l’acidificazione con strategie differenti. Speriamo anche di intraprendere una collaborazione diretta con i ricercatori che si occupano di acidificazione attuale perché crediamo che il passato (cioè gli archivi geologici) sia essenziale per formulare i possibili scenari futuri e i rimedi che sperabilmente eviteranno catastrofi ambientali.
(a cura di Mario Gargantini)