La “Celebrazione” della “5ª Giornata per la Salvaguardia del Creato”, promossa per domani primo settembre dalla Conferenza Episcopale Italiana, offre lo spunto per alcune riflessioni sulla nostra conoscenza, anche scientifica, dell’ambiente planetario che ci ospita. La maggior parte delle discipline scientifiche rivolte alla conoscenza del Pianeta indaga, secondo differenti approcci metodologici, la “materia” di cui è composto: dalla roccia madre ai vulcani, dalla tessitura dei terreni al volume o alla velocità di caduta al suolo di una goccia d’acqua, dall’intensità dell’irraggiamento solare agli uragani ed ai tifoni.
Ogni elemento sembra essere particolare, specifico, dotato di proprietà che l’osservazione scientifica, supportata dalla tecnologia, tende progressivamente a spiegare, a decifrare, a interpretare in modo oggettivo, a identificare secondo parametri incontrovertibili. La difficoltà principale dell’identificazione, tuttavia, consiste nella delimitazione o nella “contornazione” del particolare, sia come elemento fisico in sé, sia per quanto concerne l’attribuzione di un significato o di una valenza o di una funzione.
Si pensi, ad esempio, alla determinazione delle proprietà di un paesaggio o di una città o di una dorsale montuosa o di un corso d’acqua: quanti e quali criteri debbono essere considerati per compiere un’operazione che abbia come finalità quella di identificare un soggetto o un elemento, separandolo o estraendolo, quasi inevitabilmente, dal contesto di appartenenza.
Ne consegue che il livello di conoscenza acquisito dall’essere umano, da un lato lo rende più consapevole della struttura della materia e della sua evoluzione fenomenologica; ma, per altri versi, l’attrazione per una parte del tutto contempla inevitabilmente la perdita dell’orizzonte funzionale, ancora molto indistinto per la maggior parte degli esseri umani, scienziati e non. Risulta certo più semplice comprendere ciò che è immediatamente prossimo, piuttosto che ambire ad un livello di conoscenza più misterioso, più complesso, talvolta non immediatamente percorribile sul piano logico e razionale.
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L’orizzonte funzionale potrebbe essere considerato il “luogo” per eccellenza, ossia uno spazio virtuale di convergenza di intuizioni, di significati, di valenze culturali e scientifiche, di illuminazioni concettuali, tutti tesi verso una prospettiva di origine, di dipendenza, di assoluto, dove il limite dell’intelletto umano può non costituire, paradossalmente, un elemento di freno o di frizione all’opzione della ricerca del vero come realtà complessiva. Specializzarsi, nella concezione comune di chi frequenta Università ed Enti di ricerca, è preferibile che contemplare l’infinito o il mistero o la complessità fenomenica degli eventi della Terra.
Tuttavia, forse, vale la pena di sottolineare che la perdita di attrazione per l’infinito genera, in parallelo e secondo una dinamica di irreversibilità, una forma di cecità intellettuale progressiva, ovviamente non per l’oggetto specifico che si intende conoscere, ma nei confronti del suo significato per la comprensione dell’unità del sapere. Dalle considerazioni sopra accennate ci si domanda se sia concepibile e con quali garanzie di successo estendere, sul piano dell’esperienza scientifica, l’accesso a forme di conoscenza derivate dall’applicazione di una metodologia in grado di correlare elementi piuttosto che di discriminare o di speculare sulle singole componenti della realtà visibile del nostro Pianeta.
Nel recente periodo storico, ci si riferisce in particolare agli ultimi due decenni, basterebbe esaminare, in termini di sequenza di eventi che riguardano la conoscenza della superficie terrestre, le tre principali Convenzioni ONU sull’Ambiente: I cambiamenti climatici (Rio de Janeiro 1992), la biodiversità (Nairobi, 1992), la lotta alla desertificazione (Parigi 1994). Le modalità con cui tali Convenzioni quadro sono state architettate sotto il profilo politico, diplomatico, scientifico ed economico hanno, come denominatore comune, una forte tensione alla sinergia, sia per quanto concerne l’analisi della realtà ambientale, sia per quanto riguarda le azioni da intraprendere nella prospettiva difficile, perché complessa, di salvaguardare la sostenibilità, se pure malata, del nostro Pianeta, come alveo vitale indivisibile.
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Questo processo di conoscenza della complessità e della interdipendenza degli elementi costitutivi della crosta terrestre deve poter essere comunicata in modo semplice e chiaro al grande pubblico: operai, impiegati, imprenditori, amministratori locali, insegnanti, studenti, casalinghe, operatori sociali, agricoltori, intellettuali debbono poter comprendere che non è sufficiente conoscere a grandi linee il vocabolario della natura, perché queste informazioni si esauriscono nella terminologia stessa. Occorre, invece, inseguire una “grammatica della natura” come scrive Benedetto XVI nel suo Messaggio per la pace del 31/12/2009, che insegna bellezza e armonia e che conduce all’origine stessa del creato.
È necessario uscire dalla logica “paraocchistica”, che tende a considerare il processo di conoscenza adatto solo per formare una classe colta e provare, invece, a sviluppare corsi serali o domenicali per tutti, dove sia possibile educare in modo corretto al rapporto con la natura, con l’obiettivo di migliorare la qualità della nostra vita e di tutti i viventi.
Se assimilassimo la complessità della Terra ad una teorica sommatoria di sistemi apparentemente caotici, si potrebbe affermare che la sensibilità alle condizioni ambientali, l’imprevedibilità degli eventi e l’evoluzione stessa del sistema Terra, risultando una porzione infinitesimale del sistema della nostra Galassia, per non dire dell’intero Universo, dovrebbero suscitare maggiore attenzione, interesse e curiosità da parte di tutti gli esseri umani, purché, ovviamente, siano bene istruiti a riconoscere le relazioni esistenti nel microsistema cui apparteniamo.