Molte tecnologie sono nate come tentativo di imitare i comportamenti naturali e in particolare i sistemi biologici, che raggiungono «naturalmente» gli obiettivi ai quali molte macchine sono dedicate: trasformare energia, produrre movimenti, modificare strutture. Nel processo di imitazione però resta sempre uno scarto e ciò costituisce un continuo elemento di sfida per gli ingegneri.
È il caso delle celle fotovoltaiche, che sono in diretta concorrenza con le piante nella non facile impresa di convertire la luce solare in energia immagazzinata per i diversi bisogni della nostra insaziabile società.
C’è però una differenza notevole tra i due concorrenti: la fotosintesi delle piante è un processo durevole e affidabile, che si ripete giorno dopo giorno in organismi in grado di riprodursi e di ripararsi da sé. La riparazione è resa necessaria dal fatto che il processo di cattura dell’energia solare comporta la distruzione di diversi materiali. Le piante hanno tuttavia imparato a superare l’ostacolo mettendo in campo una strategia efficace: le proteine deputate alla cattura dei raggi solari vengono costantemente distrutte e riassemblate cosicché le strutture di base che raccolgono l’energia del Sole sono praticamente sempre le stesse.
Non è così per le celle solari: almeno non lo era fino a poco tempo fa. Fino a quando cioè un team di ingegneri chimici del MIT di Boston, guidati da Michael Strano e supportati dalla Energy Initiative e dal Solar Frontiers Center costituito dall’ENI nel 2008 presso la stessa università, sono riusciti a imitare i passaggi chiave di tale processo. Lavorando sulle proprietà delle nanoparticelle, i nanochimici del MIT hanno realizzato un nuovo tipo di molecole in grado di convertire la luce in elettricità con la caratteristica di essere auto assemblanti e di potersi smembrare e riassemblare rapidamente grazie alla semplice aggiunta o eliminazione di una soluzione addizionale. Sperano così di rimediare alle perdite di prestazioni soprattutto dei nuovi modelli di celle fotovoltaiche, per le quali già dopo sessanta ore di funzionamento si possono verificare perdite di efficienza anche del 10%.
La sfida principale era di eguagliare le piante nella velocità di riparazione dei meccanismi fotosintetici: si pensi che in piena estate una foglia d’albero ricicla le sue proteine ogni 45 minuti, anche se a noi sembra restare inalterata. È il frutto dell’attività di «quelle macchine meravigliose che sono i cloroplasti», le microcapsule all’interno delle cellule vegetali dove avviene la fotosintesi: macchine che consumano la CO2 e utilizzano la luce per produrre glucosio il quale fornisce l’energia necessaria per il metabolismo. Come spiegano Strano e collaboratori in un articolo pubblicato recentemente su Nature Chemistry, si trattava di emulare questo processo producendo molecole sintetiche dette fosfolipidi che vanno a formare dei dischi sui quali si impiantano i centri di reazione dove vengono rilasciati gli elettroni all’arrivo della luce. Ecco allora entrare in azione le nanotecnologie.
I dischi sono in una soluzione dove si attaccano spontaneamente a dei nanotubi di carbonio, cioè quei fili di atomi di carbonio sottili fino a pochi miliardesimi di metro ma resistenti come l’acciaio e in grado di condurre elettricità mille volte meglio del rame.
I nanotubi tengono i dischi di fosfolipidi allineati uniformemente in modo da esporre alla luce i centri di reazione e agiscono anche da cavi elettrici per incanalare il flusso di elettroni. Il sistema messo a punto al MIT comprende quindi i nanotubi, i fosfolipidi, le proteine e altre componenti che, sotto opportune condizioni, si assemblano spontaneamente e producono corrente: è sufficiente aggiungere all’insieme un composto tensioattivo (simile alle schiume che la BP ha immesso nel Golfo del Messico per isolare il petrolio) per separare le componenti, che poi si riaggregano spontaneamente quando il tensioattivo viene rimosso spingendolo attraverso una membrana.
I prototipi di celle così progettate hanno superato i primi test mantenendo una piena efficienza anche dopo 14 ore di ripetuti cicli di assemblaggio e disassemblaggio. Il sistema è ovviamente da perfezionare, ma Strano e il suo team sanno in che direzione muoversi: per portarsi verso livelli di efficienza da record, devono solo aumentare la concentrazione in soluzione delle nuove strutture molecolari.
(Michele Orioli)
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