La riproducibilità di un fenomeno fisico nei suoi elementi fondamentali, l’esperimento, è il particolare modo di interrogare la realtà che da Galileo in avanti è posto a fondamento, insieme alla matematica, dello strabiliante edificio della scienza moderna. Lo studio di un fenomeno, perciò, è scientifico se è possibile “riottenere” sotto le stesse condizioni gli stessi risultati relativi a un dato fenomeno fisico. Non tutte le scienze fisiche danno però questa possibilità: proprio la più antica delle scienze, l’astronomia, non permette di fare “esperimenti” o indagini direttamente sugli oggetti che studia, salvo rarissimi casi di oggetti celesti abbastanza vicini, come i pianeti del Sistema Solare.



C’è bisogno quindi di una modalità certa di raccogliere informazioni: questo è possibile grazie alla radiazione elettromagnetica. La luce emessa, riflessa o diffusa dai corpi celesti permette infatti agli astronomi non solo di individuarli nella volta del cielo, ma di andare a vedere cosa accade sulla superficie degli oggetti che studiano. La luce, infatti, è il veicolo attraverso il quale una insospettabile quantità di informazioni possono essere ricavate, dalla Luna, il nostro più prossimo compagno celeste, fino ai punti più distanti dell’Universo visibile.



Dalle osservazioni di Galileo in avanti, si sono compiuti passi in avanti formidabili, non solo per la capacità degli strumenti di osservare oggetti sempre più lontani, ma anche per la varietà e completezza delle analisi condotte. In particolare, a fianco delle osservazioni “normali” si è sviluppata una branca di osservazioni chiamata fotometria e dopo di essa la spettrofotometria. La fotometria misura l’intensità del flusso della radiazione su tutte le lunghezze d’onda, mentre la spettrofotometria è l’analisi dell’intensità di emissione luminosa a seconda della banda di frequenze.



La spettrofotometria è ciò che permette di stabilire per esempio la composizione chimica delle atmosfere stellari. Grazie al modello atomico costruito con la meccanica quantistica, infatti, sappiamo che gli atomi di un dato elemento chimico assorbono la radiazione emessa da un corpo solo in alcune lunghezze d’onda, mentre risultano trasparenti a tutte le altre.

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Se perciò frapponiamo un certo numero di atomi di un elemento in stato gassoso fra una sorgente luminosa bianca e il nostro occhio, quando andremo ad analizzare lo spettro della radiazione (come si può fare per esempio con un prisma, secondo il noto esperimento di Newton), noteremo delle vere e proprie righe scure in punti precisi dello spettro.

Le righe sono la testimonianza di un assorbimento da parte del gas di alcune frequenze della radiazione della sorgente luminosa. A elementi chimici differenti corrispondono posizioni delle righe di assorbimento precise e differenti. Analizzando perciò gli spettri di corpi luminosi come le stelle, possiamo scoprire quali elementi compongono le loro atmosfere.

Questo tipo di studi sta diventando importante anche nello studio e nella caratterizzazione dei pianeti extrasolari, pur non essendo corpi che hanno una emissione luminosa propria. La tecnica utilizzata, chiamata Spettroscopia a Banda Stretta in Transito, è particolare ed è stata sviluppata da alcuni astronomi dell’Università della Florida e parallelamente da un team dell’Università di Exeter, in Gran Bretagna: si cercano pianeti che transitano proprio davanti alla loro stella e se ne misura lo spettro dell’atmosfera, attraversata dal flusso luminoso della stella.

Ovviamente non tutti i pianeti possono essere osservati in questo modo, da un lato perché non tutti i pianeti che noi possiamo osservare hanno un’orbita orientata nel modo “giusto”, dall’altro perché i risultati per ora risultano apprezzabili solo per pianeti giganti, di dimensioni almeno simili a quelle di Giove. Inoltre non tutte le stelle sono abbastanza luminose per consentire una analisi di questo tipo. Ma la tecnica, si sa, può fare passi avanti, e potrebbe in un vicino futuro consentirci, almeno per quelli orientati nel modo giusto, di studiare la composizione chimica delle atmosfere di pianeti molto più piccoli.

 

 

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Nel 2002, con la stessa tecnica, il telescopio orbitante Hubble è riuscito a rilevare la presenza di Sodio nell’atmosfera di HD 209458 b (soprannominato Osiris), un pianeta extrasolare che orbita intorno a una nana gialla simile al Sole visibile nella costellazione di Pegaso a circa 150 anni luce dal Sistema Solare. Oggi le osservazioni dei due gruppi hanno consentito di scoprire con certezza la presenza di Potassio nell’atmosfera di due pianeti giganti: HD 80606 b, a circa 190 anni luce dalla Terra, e XO-2b, a circa 485 anni luce: la loro temperatura è rispettivamente di almeno 1500 e 1200 gradi Kelvin, abbastanza per vaporizzare il Potassio.

 

I ricercatori hanno usato uno dei più grandi e potenti telescopi al mondo, il Gran Telescopio delle Canarie, che ha uno specchio di più di 10 metri di diametro ed è situato in uno dei migliori siti per le osservazioni amatoriali. L’Università della Florida è per il 5% partner del telescopio, che cattura abbastanza luce per rendere possibile la spettroscopia in transito. «I risultati di entrambi i team -dice David Sing dell’Università di Exeter- sono molto incoraggianti. Non abbiamo ancora esplorato le piene capacità e i limiti ultimi dello strumento».

E quali possono essere i nuovi agognati risultati? Esaminare pianeti più piccoli, di dimensioni simili a quelle della Terra, alla ricerca di molecole di gas come metano e vapore acqueo, intimamente collegati alla presenza della vita. E tutto questo grazie al più formidabile “intermediario” dell’Universo: la luce.