Non amo molto Greenpeace. Non mi entusiasmano i suoi modi eclatanti di fare, né il suo catastrofismo spesso di maniera. Ma questa volta devo dire che mi ha veramente stupito positivamente. E’ stata infatti promotrice di un’iniziativa seria, puntuale e soprattutto del tutto condivisibile umanamente. Chapeau!!
E’ stata Greenpeace, infatti, a sollevare una questione delicatissima davanti alla corte di Giustizia Europea; non quella dei diritti umani, la CEDU, ma quella istituita nell’ambito dell’UE, con il compito di verificare la legittimità degli atti dell’Unione e di garantire un’interpretazione e un’applicazione uniformi del suo diritto.
Ebbene, davanti a detta Corte si è discusso della legittimità di un brevetto tedesco relativo a procedimenti per la produzione di cellule progenitrici neurali, a partire da cellule staminali embrionali, e relativo all’utilizzazione di dette cellule per ricerca scientifica. E se ne è esclusa la brevettabilità, richiamandosi l’articolo 6 della Direttiva 98/44/CE, che considera appunto non brevettabili “le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali”.
Il titolare del brevetto tedesco – con la solita tecnica di piegare la natura delle cose a definizioni soggettive e al proprio interesse particolare – sosteneva che la direttiva europea non specificherebbe la nozione di embrione, potendosi escludere da detto contenuto le cellule embrionali al di sotto di un certo stadio di sviluppo o gli ovuli non fecondati in cui sia stato impiantato il nucleo di una cellula umana matura. Inoltre, la direttiva vieterebbe la brevettabilità di utilizzazioni a fini industriali e commerciali, ma non quelle a fini di ricerca. Infine, il brevetto non riguarderebbe embrioni umani, bensì cellule “ricavate” da essi.
Al di là del dispositivo della sentenza (che conclude per la non brevettabilità), significativo appare il percorso logico e le motivazioni a base della decisione. La Corte dà una definizione di embrione umano, precisando che è tale “qualunque ovulo umano sin dalla fecondazione, qualunque ovulo umano non fecondato in cui sia stato impiantato il nucleo di una cellula umana matura e qualunque ovulo umano non fecondato che, attraverso partenogenesi, sia stato indotto a dividersi e a svilupparsi”.
E’ un punto fermo di notevole importanza anche per le legislazioni degli stati membri. Ed è un punto fermo di notevole spessore, anche per i motivi che l’hanno ispirato. Se è vero che la direttiva europea non fornisce alcuna definizione di embrione umano, ciò non significa che non esista. In particolare, “lo sfruttamento del materiale biologico di origine umana deve avvenire nel rispetto dei diritti fondamentali e, in particolare, della dignità umana e dell’integrità dell’uomo”. Da ciò risulta che la nozione di embrione umano “deve essere intesa in senso ampio”: “sin dalla fase della sua fecondazione qualsiasi ovulo umano deve essere considerato come embrione umano, dal momento che la fecondazione è tale da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano”.
La Corte precisa poi che l’esclusione dalla brevettabilità dell’utilizzazione di embrioni umani a fini industriali o commerciali, riguarda anche l’utilizzazione a fini di ricerca scientifica, mentre “solo l’utilizzazione per finalità terapeutiche o diagnostiche, che si applichi all’embrione umano e sia utile a quest’ultimo, può essere oggetto di un brevetto”.
Infine, la Corte rileva che il prelievo di una cellula staminale su un embrione umano, in qualunque stadio si trovi, comporta la distruzione dell’embrione. Ne consegue che un’invenzione deve essere esclusa dalla brevettabilità, anche se le rivendicazioni del brevetto non vertono sull’utilizzazione di embrioni umani, ove l’attuazione dell’invenzione “richieda la previa distruzione di embrioni umani o la loro utilizzazione come materiale di partenza, indipendentemente dallo stadio in cui esse hanno luogo”.
La sentenza della Corte non ha effetti diretti in Italia, ove vige la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, che vieta espressamente qualsiasi sperimentazione sugli embrioni, anche a fini di ricerca, escluse le finalità terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della salute dello stesso embrione. Ha però indubbi riflessi a livello europeo, in quanto – come spiega la stessa sentenza – la nozione di embrione non può essere oggetto di un rinvio ai singoli diritti nazionali, essendo necessaria “una nozione autonoma del diritto dell’Unione, che deve essere interpretata in modo uniforme sul territorio di quest’ultima“.
Ma ciò che più mi colpisce di tutta questa vicenda, è la strana accoppiata Greenpeace – e comunque verdi europei – e la tutela dei valori non negoziabili.
Che non è poi tanto strana, come accoppiata. Soprattutto se si tiene presente il comun denominatore costituito dall’ordinamento tedesco.
Ancora fresche solo le parole del papa pronunciate al Bundestag, nel recente viaggio in Germania, sulla necessità di una nuova “ecologia dell’uomo”: “anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non né soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana”.
Queste parole, così profetiche, sono state pronunciate da Benedetto XVI in modo quasi preoccupato, “nella speranza di non essere troppo frainteso né di suscitare troppe polemiche unilaterali”. Evidentemente doveva essere consapevole dell’effetto che l’accostamento tra fede e movimento ecologico, avrebbe potuto determinare nell’immaginario mass mediatico e politico europeo. In realtà, queste parole sono il tentativo di spiegare con un esempio concreto la sua critica alla “ragione positivista”, quella che non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, e che “assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio”. La consapevolezza di una nuova ecologia dell’uomo, per cui “dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente”, è ciò che potrebbe far tornare l‘uomo a “spalancare le finestre”.
Si può dire che Greenpeace – in questa circostanza – abbia aiutato il papa a spiegare bene cosa avesse voluto dire ai parlamentari tedeschi e a tutti gli europei.
E vi sono altri fatti di questi giorni, che mi paiono significativi, in questo senso. Il cardinal Bagnasco, introducendo il convegno delle associazioni cattoliche a Todi, ha parlato di “metamorfosi antropologica”: “sono in gioco le sorgenti stesse dell’uomo: l’inizio e la fine della vita umana, il suo grembo naturale che è l’uomo e la donna nel matrimonio, la libertà religiosa ed educativa che è condizione indispensabile per porsi davanti al tempo e al destino”. Con ciò, il cardinale ha risposto a quei cattolici (non pochi) e laici (come De Bortoli dalle pagine del Corriere) avrebbero visto bene un cambio di rotta nell’impegno politico dei cattolici, verso una nuova “missione sociale”, lasciando a margine quell’impegno per la difesa di valori non negoziabili, che susciterebbe “incomunicabilità” con le posizioni laiche.
Stupisce ancora di più – in questo quadro di invocata incomunicabilità – il manifesto di quattro intellettuali rigorosamente “laici” di area Pd (Barcellona, Sorbi, Tronti e Vacca), che chiedono un “confronto” su due temi fondamentali del magistero di Benedetto XVI, ossia il rifiuto del relativismo etico e il concetto di valori non negoziabili.
Greenpeace, Bagnasco e manifesto: tre esempi che scompaginano le nostre piccole e interessate – a volte – costruzioni ideologiche; tre esempi dai quali tornare a spalancare le finestre sulla vastità del mondo, tra cielo e terra.