Il termine robot ci fa probabilmente venire in mente, di primo acchito, quelle sorprendenti “macchine “ antropomorfe che nei film di fantascienza si muovono e si comportano in maniera quasi indistinguibile dagli “umani”. Lasciamo al tempo il compito di dimostrare se la realtà raggiungerà la fantascienza. Per intanto possiamo constatare che i robot sempre  più sofisticati prodotti nei laboratori di ricerca delle università e di alcune industrie di avanguardia, sono in realtà progettati  per obbiettivi meno ambiziosi ma non meno importanti, quali la sostituzione dell’uomo in compiti pericolosi, in ambienti ostili. Un esempio può essere la penetrazione  negli spazi ristretti e tormentati all’interno di un edificio, crollato a causa  di una esplosione o di un terremoto, alla ricerca di superstiti.



Per potersi muovere agevolmente in simili ambienti queste macchine possono assumere forme e strutture molto strane, a volte ispirate al mondo della natura, seguendo i dettami di quel ramo della scienza, della quale è paladina la rivista Bioinspiration&Biomimetics, che pubblica ricerche sulla applicazione di principi ricavati dai sistemi naturali, alla progettazione ingegneristica e tecnologica. Dalle pagine di questa rivista apprendiamo per esempio che nei laboratori della Biomimetic Millisystem della Università della California, a  Berkeley, hanno realizzato un minuscolo robot a sei zampe (DASH, Dynamic Autonomous Sprawled Exapod), che si muove come uno scarafaggio, e può strisciare e arrampicarsi quasi dappertutto, magari portando una piccola telecamera sulla “schiena”.



Il risultato è stato incoraggiante, pur con qualche limite sulle pendenze massime superabili, e soprattutto con un inconveniente che stessi gli insetti  a volte incontrano: il robot non aveva problemi di robustezza, anche cadendo da grandi altezze, ma se gli capitava di atterrare capovolto, non era più in grado di raddrizzarsi. Così i progettisti hanno provato a dotarlo di un paio di leggerissime ali battenti e di una coda, per aumentarne la mobilità e la stabilità. I nuovi “arti” si sono dimostrati utili a superare il problema della stabilità e anche capaci, dove c’è spazio, di migliore la velocità di avanzamento (accorciando così i tempi di esplorazione), ma non sufficienti a far decollare il “robo-scarafaggio”; peraltro si è visto che in caso di cadute da una certa altezza esso diveniva in tal modo in grado di fare delle specie di piccole planate, oltre ad atterrare diritto sulle sue “zampe”.



Detto questo, la storia sarebbe di scarso interesse, salvo forse per qualche amante di  cose volanti (al quale si potrebbe consigliare di andare a rileggersi l’impagabile libretto di Henk Tennekes La semplice scienza del volo), se non fosse anche giunta alle orecchie di  Robert Dudley, professore di “integrative biology” (una disciplina che si propone di affrontare lo studio dei sistemi biologici utilizzando molteplici competenze e punti di vista) presso la medesima università californiana. Dudley è uno studioso del volo animale e in particolare è interessato a capire come nel corso dell’evoluzione gli esseri viventi abbiano acquisito la capacità di volare. A tal scopo sono state avanzate diverse teorie, tutte basate su scarsi riscontri fossili e in gran parte su modellazioni matematiche. Secondo uno di questi modelli, agli insetti terricoli sarebbe bastato, in condizioni ottimali, aumentare la velocità  di almeno tre volte rispetto a quella normale per riuscire a volare.

Ma l’esperienza della “robo-blatta” DASH, corroborata da accurati test e misure, addirittura in una galleria del vento,  parrebbe dimostrare che con delle semplici ali non si riesce ad aumentare la velocità più di un paio di volte; sembrerebbe quindi difficile che al volo si sia arrivati direttamente. Più probabile che sia capitato quanto si è visto con DASH stesso, cioè che in presenza di qualcosa di simili ad appendici alari i loro portatori abbiano acquisito dei vantaggi evolutivi in termini di mobilità o anche di capacità di allungare i salti o addirittura di fare delle brevi planate.

D’altra parte, aggiunge Dudley, le stesse testimonianze fossili relative ai possibili precursori dei primi uccelli mostrano che essi erano animali dotati di lunghe piume sui quattro arti e anche di una lunga coda  piumata: tutte caratteristiche più vantaggiose per animali abituati a vivere sugli alberi e a planare da un albero all’altro utilizzando tali appendici piumate, piuttosto che per animali terricoli.

Siamo nel campo delle congetture e della speculazione; e a dir la verità, non è questa la scienza che più ci piace e ci convince. Peraltro l’esperienza di DASH sembra mostrare che oltre alle simulazioni matematiche si potrebbe ricorrere a dei sofisticati modelli robotici per provare se certe ipotesi sulle possibili pieghe prese dall’evoluzione abbiano un minimo di credibilità. Altrimenti si rimane a livello di quella  battuta che circolava un tempo fra gli ingegneri aeronautici, cioè che secondo le teorie correnti i calabroni non avrebbero mai dovuto volare, ma siccome loro non lo sanno, volano lo stesso.