La necessità di sanare il divario tra le “due culture” ha già portato alla nascita di “discipline ponte” come la bioetica dove, nei casi più accorti dove si rinunci allo sterile confronto ideologico a priori, la scienza è correttamente considerata non solo linguaggio, teoria e risultati ma principalmente una pratica, una serie di azioni intraprese da persone umane guidate da conoscenze tecniche, teoriche ma soprattutto da quella che Aristotele chiamava la prudenza o ragion pratica, quella particolare ragione in atto che ci consente di prendere decisioni in condizioni di incertezza, che sono poi a ben vedere le condizioni di qualsiasi tipo di sperimentazione.



Ed è proprio a livello della ragion pratica che il filosofo o comunque l’umanista (qualsiasi cosa questo significhi visto che ogni scienza è costruzione umana), ponendo delle domande generali di efficacia e rischio potenziale delle pratiche scientifiche può essere di grande aiuto alla ricerca. Curiosamente la bioetica, in campi come la ricerca clinica, ha occupato un posto che spetterebbe di diritto alla statistica e all’analisi dei dati e così facendo ha dato una scossa salutare agli esperti che negli ultimi decenni avevano in parte perso la ragion d’essere della loro disciplina dando troppa importanza ai dettagli matematici, così riportando le scienze statistiche al loro importantissimo ruolo di indirizzo e di messa a fuoco della congruità di mezzi e fini della ricerca scientifica, di metodo insomma, parola greca che indica la “via per”.



Un livello di integrazione ancora più intimo è quello perseguito col progetto “Human Ecology”, varato dal corso di laurea in Ingegneria Chimica per lo Sviluppo Sostenibile e dall’Istituto di Filosofia dell’Agire Scientifico e Tecnico del Campus Biomedico di Roma, con il sostegno di Lottomatica, e presentato la scorsa settimana. Un’iniziativa che vede la piena collaborazione di “umanisti” e “tecnici” impegnati in un percorso di ricerca comune e che promette di essere un esperimento di integrazione di saperi e competenze non semplicemente relegato a (pur importantissimi) momenti seminariali di confronto culturale ma che si dipana nel lavoro quotidiano dei ricercatori.



Quello che tutti i relatori al convegno di presentazione hanno evidenziato è che l’aggettivo “umana” non è lì per caso o per semplici motivi promozionali in quanto l’uomo, nella sua unicità di persona che mira alla felicità e a una vita buona è considerato al centro di qualsiasi discorso ecologico.

Qui è importante capirsi; una delle caratteristiche più insopportabili del pensiero cosiddetto moderno è il suo baloccarsi tra alternative estreme – che poi a ben vedere si dimostrano sorprendentemente simili nel profondo (qui mi preme segnalare al lettore interessato a questa drammatica patologia del pensiero moderno, almeno la triade Eretici, Ortodossia e Cosa non va nel Mondo, dell’immenso GK Chesterton), per cui o si è per la Deep Ecology, per cui l’uomo è considerato un intruso nella Natura, un vero e proprio cancro del pianeta, una specie animale come un’altra, anzi peggio delle altre vista la sua pericolosità per l’equilibrio ecologico; oppure si propende per il più bieco antropocentrismo tecnologico dei post-umanisti per cui di fatto i vincoli di natura non esistono e il mondo è solo un deposito di risorse virtualmente infinito da sfruttare per “il potenziamento continuo” di un nuovo ibrido biologico-artificiale che superi il limitato e mortale omarino che siamo abituati a conoscere.

Come si nota, entrambi gli estremi sono unificati da un profondo disprezzo per l’umano, differendo solo per le modalità della sua eliminazione: un suo sparire naturale per vie demografiche o una sua trasformazione tecnologica verso il robot. Nulla di nuovo sotto il sole, già Pascal prendeva in giro questa oscillazione tra “bestia e angelo” in alcuni dei pensatori suoi contemporanei smascherandone la vanità: Ma ora il problema è serio in quanto si tratta di scelte importantissime che devono essere fatte sull’ambiente in cui la politica e quindi, in maniera neanche troppo indiretta, la base filosofica da cui si parte, ha un peso enorme nel propendere verso differenti ipotesi; specie se si pensa che stiamo parlando di scelte da fare in condizioni di incertezza estrema.

Mettere al centro l’uomo nel discorso ecologico significa allora cercare di non separare mai la parola ecologia dalla parola sviluppo, insomma se un particolare problema, una situazione di crisi, una specifica decisione mettono in opposizione lo sviluppo economico e la salvaguardia dell’ambiente significa che dobbiamo ripensare dall’inizio tutta la procedura, in quanto ciò che ci appare come una scelta di sviluppo economico nasconde evidentemente una trappola, qualcosa che prima o poi ci chiederà di pagare un prezzo, anche economico, molto più alto dell’apparente beneficio. Qui riusciamo a capire perché il termine sostenibilità (ahimè fin troppo abusato di questi tempi tanto da rischiare sbadigli e disinteresse appena lo si pronunci) è così importante.

La sostenibilità, che a ben vedere può essere intesa come lunga durata o auto-sostentamento senza continui apporti di energia, non è di per sé stessa un valore. Nessuno si augura che una guerra o un uragano si mantengano per un tempo indefinito, quando parliamo di sostenibilità ci riferiamo in maniera implicita a uno sviluppo sostenibile, in questo caso la caratteristica di sostenibilità sarà sicuramente desiderabile. A questo punto il discorso può essere ragionevolmente intrapreso perché ammette un inquadramento dimensionale nel tempo e nello spazio: nessuno ad esempio potrebbe ragionevolmente prendere in considerazione un orizzonte di sostenibilità di un milione di anni, allo stesso modo, sul versante spaziale possiamo sicuramente limitare un’area in cui l’effetto delle nostre decisioni avrà un possibile effetto rilevante per andare a diminuire a distanze maggiori.

La natura “umana” dell’ecologia ci consente di definire lo sviluppo in termini di felicità della persona, felicità che copre tutti gli aspetti della vita in quanto la felicità non è un’astrazione ma è proprio la felicità concreta di una certa persona. La possibilità di farsi una passeggiata nella natura senza prendere l’automobile, di ammirare un bel paesaggio, di avere aria e acqua pulita, di poter avere tempo libero a disposizione per la vita di relazione, sono elementi concreti di felicità che abbiamo ormai capito non poter essere vicariati da un corrispettivo monetario. Ecco allora che l’impegno per la costruzione di uno (o più) indicatori che esplicitamente e senza forzature aprioristiche ma restando il più possibile allineati all’evidenza empirica tengano presenti tutte queste dimensioni dello sviluppo sostenibile diventa una sfida eccitante per il pensiero scientifico.

Una sfida ancor più eccitante qualora si consideri che già sappiamo che per intraprenderla il pensiero scientifico dovrà affrontare la rifondazione di uno dei suoi pilastri fondamentali: il concetto di ottimizzazione di una funzione. Qualsiasi impresa scientifica si può immaginare come la soluzione di un problema di ottimo la cui soluzione è la configurazione delle variabili del problema che garantisca il raggiungimento di un minimo di energia o comunque di massimo avvicinamento a un ottimo. Gli statistici lo chiameranno minimizzazione dell’errore, i chimici configurazione stabile ma la sostanza è identica.

Questa procedura implica prima di tutto l’esistenza di un minimo (o massimo) assoluto della funzione che giocoforza implica la “riduzione” del sistema alla sua caratteristica fondamentale essendo altri elementi del problema, altre interazioni, considerate “irrilevanti” (la letteratura anglosassone le indica, utilizzando un termine che sa di magia, come vanishingly small). La storia ci ha insegnato a nostre spese come questi particolari secondari che in un primo momento sembravano vanishingly small, sul lungo periodo hanno acquisito una potenza devastante per cui il supposto risparmio di suolo dei grattacieli si è risolto in spese enormi per la climatizzazione, la gestione degli scarichi e addirittura lo spreco di suolo “secondario” per parcheggi e svincoli autostradali.

La scienza dei sistemi complessi, prima fra tutte lo studio delle macromolecole biologiche, ci ha fatto balenare una logica di ottimizzazione messa in campo dalla natura molto differente da quella del riduzionismo: le proteine, lungi dall’avere una singola configurazione ottimale, svolgono al meglio la loro funzione mantenendo aperta la possibilità di numerosi minimi locali che vengono visitati alternativamente a seconda del contesto ambientale. L’ottimizzazione della flessibilità a spese dell’energia della singola configurazione è dunque un principio alternativo che la natura ci suggerisce così come la molteplicità degli spazi di ottimizzazione, il cablaggio ottimale delle reti per la massimizzazione della robustezza e tante altre idee che ci giungono dalla scienza della complessità.

Ecco allora che un terreno di gioco comune per filosofi, politici, economisti e scienziati della natura è là bello e pronto per essere sfruttato con amore e impegno.