Molto sfidante la mostra “Happy Tech. Macchine dal volto umano. Arte ispirata dalla scienza + la scienza che l’ha ispirata”, realizzata dalla Fondazione Marino Golinelli in collaborazione con La Triennale di Milano (ora a Bologna dal 3 al 13 febbraio, poi a Milano dal 22 febbraio al 31 marzo). Sfidante per molti motivi, a cominciare dal titolo e dai sottotitoli: rapporto tra tecnica (la scienza in realtà non è a tema) e arte, tecnologia buona e tecnologia cattiva, il mondo che fu e l’attuale, il nucleare e il solare, la comunicazione e l’incomunicabilità, e altro ancora. Da scoprire andandoci.
A mio avviso, tuttavia, l’aspetto più apprezzabile di Happy_Tech è che apre a molte domande, ma non chiude su una risposta; proclama nel messaggio di apertura che “la cultura è una sola” e propone una varietà espressioni apparentemente lontane, se non contrapposte, che sembrano negare l’incipit. In tal modo, il visitatore è spinto, dall’impatto con l’opera, a cercare la corrispondenza con la propria esperienza umana (attraverso l’emozione suscitata o più profondamente immedesimandosi nell’esperienza presentata e paragonandosi con essa), più che cercare di costruire un filo logico, un discorso compiuto, impossibile da trovare e comunque da esaurire.
Se tenterà di cercare il “discorso”, cosa facilissima data l’ambiguità/ambivalenza di tanti aspetti, scivolerà su una serie di luoghi comuni (quelli suddetti: tecnologia buona o cattiva, nucleare sì oppure no,…) adatti forse per il dibattito, non per il vedere. Invece, grazie alla tecnologia, si può stare di fronte alle opere esposte molto semplicemente: tutto parla di come siamo fatti oggi, di questo secolo che ha poco più di dieci anni. Anche le schede perforate dei calcolatori anni settanta e i cari vecchi “tape” di una volta sembrano archeologia e i richiami al passato, come la bellissima foto della Hoffer dell’Archiginnasio di Bologna con la sua prospettiva profondissima e vuota, oltre che scarni sono estranei al contesto.
Che sia voluto o meno, anche questo passato assente e muto apre a una domanda. Introdotti all’arte dalle tecnologie così a noi familiari, la sfida immediata è paragonare l’esperienza dell’artista con il nostro desiderio di bello e di vero, che nell’arte trova il suo linguaggio più naturale. In questo senso, a mio avviso, la mostra tratta il tema “arte e tecnologia” essenzialmente nell’aspetto di espressioni artistiche rese possibili da – o comunque che usano – le tecnologie che usiamo oggi, il linguaggio che parla il volgo d’oggi.
Cosa dice il “quadro in movimento” di Bill Viola con i due ragazzi che in modo separato fanno un identico percorso dalla nebbia alla luce e ritorno? La tecnologia (in questo caso la trattazione digitale delle immagini) rende proponibile e ripercorribile una esperienza – quella comunicata dall’artista – in modo molto efficace, attraverso un linguaggio facilmente comprensibile, e apre alla possibilità di un paragone, di una domanda, appunto. Ancora, “l’Ipnoducente” di Kirchoff, con quell’atmosfera di rapporto inesistente, pur nell’abbondanza dei mezzi di comunicazione, attraverso l’immedesimazione urge a un paragone. Che dire poi del video di Ghanal, sull’eroico tentativo di andare in bicicletta da piazza San Pietro a Piazza del Popolo a Roma?
Il commentario della mostra tratta il video alla stregua di uno spot per la bicicletta elettrica (questo tipo di riduzione è il vero pericolo nel visitare la mostra), ma molto più interessanti sono le domande che nascono stando sul sellino e pedalando tra le auto: è una storia “vera”. Vera è anche la video animazione del cinese Cao Fei, seppur tutto virtuale, con quel dittatore che non è Mao, ma potrebbe esserlo, sprofondante nel mare, quel grande braccio di gru sospeso nel cielo senza il suo sostegno, il panda volante, la bandiera rossa su lontano sospesa ne cielo e il turbinoso movimento che dà un po’ il senso della velocità e un po’ del vuoto: è impossibile non “entrare” nel video e provare quell’attrazione e quella nausea insieme che spingono a chiedersi ciò che vale e ciò che non ha valore.