Si aprono speranze per coloro che vengono colpiti dal tumore noto come linfoma ALK-positivo. E le speranze vengono dall’Italia e rimbalzano su una prestigiosa rivista internazionale di medicina: il New England Journal of Medicine, che proprio oggi pubblica i risultati relativi al trattamento con una nuova molecola, il crizotinib, di pazienti affetti da questa malattia. La pubblicazione è firmata da Carlo Gambacorti Passerini, professore associato di Medicina Interna nel dipartimento di Medicina Clinica e prevenzione dell’Università di Milano-Bicocca, dal professor Enrico Pogliani, direttore dell’Unità di Ematologia dell’Ospedale San Gerardo di Monza, e dalla professoressa Cristina Messa, docente di Medicina Nucleare nello stesso Ateneo. La sperimentazione è stata condotta su due pazienti di 20 e 26 anni in fase avanzata di malattia e che rappresentano i primi pazienti al mondo trattati con questi tipo di terapia. Ce ne parla lo stesso professor Gambacorti Passerini.
Cos’è il linfoma ALK e qual è la sua gravità?
Il linfoma ALK-positivo appartiene alla classe dei Linfomi Anaplastici a Grandi Cellule (ALCL) che rappresentano un gruppo di Linfomi non-Hodgkin caratterizzati dall’espressione dell’antigene glicoproteico di superficie CD30/Ki-1. Il meccanismo attraverso il quale la proteina ALK (anaplastic lymphoma kinase, ovvero chinasi del linfoma anaplastico) viene regolata in questa malattia è una traslocazione cromosomica, simile a quella che avviene nella leucemia mieloide cronica, che fonde parte del gene ALK con il gene NPM, producendo così un gene ibrido NPM-ALK. La gravità deriva dal fatto che si tratta una malattia estremamente aggressiva, con rapida crescita, sintomi sistemici e mortalità elevata. In Italia, ogni anno, si registrano circa mille nuovi casi, per lo più in pazienti relativamente giovani.
Prima della vostra terapia, come veniva trattato?
Alla prima diagnosi si procede con trattamenti chemioterapici, a vari livelli di chemioterapia; si può anche provare col trapianto autologo di midollo osseo. Spesso, però, si incorre in una recidiva e in questi casi finora non c’erano praticamente alternative. Era la situazione dei due pazienti oggetto della nostra sperimentazione per i quali, all’avvio della terapia, la sopravvivenza era stimata in poche settimane.
Che cos’è il crizotinib e perché avete pensato a una terapia basata su questa molecola?
Era abbastanza logico pensare a questo tipo di trattamento. Infatti, si sapeva che tumori di questo tipo esprimono la proteina ALK e il crizotinib è proprio un inibitore di questa proteina. Non accade frequentemente di potersi basare su una buona conoscenza dei meccanismi di attivazione del tumore e in questo noi siamo stati avvantaggiati.
Qual è il significato dei risultati che avete pubblicato sul New England Journal of Medicine?
Anche se riguardavano solo due pazienti, i risultati erano molto significativi; e questo ha determinato la pubblicazione sulla rivista. La terapia con crizotinib ha evidenziato una risposta soggettiva (scomparsa della febbre, diminuzione o scomparsa dei dolori) già dopo tre-quattro giorni di trattamento, con successiva regressione completa delle lesioni presenti dopo un mese di terapia. I pazienti sono stati dimessi dall’ospedale dopo due-tre settimane e stanno continuando a casa la terapia: uno ha già raggiunto gli otto mesi di trattamento, il secondo cinque mesi. La somministrazione avviene per via orale due volte al giorno e al momento è ottimamente tollerata, essendo stati riscontrati solo lievi disturbi durati solo qualche giorno. Devo dire che, essendo la malattia in fase estremamente avanzata, la durata nel lungo periodo non è assicurata. Quello che è certo comunque, data l’entità della risposta e i risultati molto simili nei due pazienti, è che l’attività terapeutica è molto rilevante e che il crizotinib mostra un minore impatto tossico rispetto ai più tradizionali farmaci citotossici/chemioterapici.
Come procederanno ora le verifiche e quando prevedete di stabilizzare la terapia?
La verifica della terapia sarà estesa ad altri sette centri di cura e ricerca italiani coinvolgendo una trentina di pazienti in tutta Italia. Cinque pazienti in totale hanno iniziato questo trattamento. Prevedo che questa fase possa durare uno-due anni. Un successivo perfezionamento e consolidamento della terapia potrà richiedere quattro-cinque anni.