L’annuncio dato martedì scorso dalla Nasa della scoperta di 1202 possibili pianeti extrasolari tra i quali un intero sistema di ben 6 pianeti, da parte del satellite Kepler in soli 136 giorni di attività (quasi 9 al giorno) ha suscitato (giustamente) grande scalpore, a dispetto del fatto che si tratta di dati in gran parte ancora provvisori (in ogni caso gli esperti ritengono che non meno dell’80% dei candidati dovrebbe essere confermato). Si tratta in effetti di un annuncio veramente storico, anche se, come quasi sempre accade con le notizie scientifiche, gli aspetti più importanti non sono quelli che colpiscono immediatamente l’immaginazione e che quindi vengono maggiormente enfatizzati dai media.
A prima vista infatti ciò che più impressiona è senza dubbio il gran numero di pianeti scoperti, che fa legittimamente pensare che praticamente ogni stella debba averne. Ma questa in realtà non è una novità: dopo che in pochi anni si erano scoperti oltre 500 pianeti extrasolari con le osservazioni da terra, nonostante il grave ostacolo dell’atmosfera, e soprattutto dopo che era stato scoperto che i pianeti si formano dai residui delle nubi di polvere cosmica che collassano a formare le stelle, e sono quindi per così dire dei “sottoprodotti” abituali della loro genesi, gli astronomi ne erano ormai certi. Da questo punto di vista i dati di Kepler costituiscono solo un’ulteriore conferma. Anche la scoperta di Kepler-11, il primo sistema planetario paragonabile al sistema solare per il numero dei pianeti (6 contro i nostri 8), per le loro dimensioni e per la forma delle orbite (quasi circolari, come le nostre), colpisce ma non stupisce, dato che in effetti è una logica conseguenza di quanto sopra.
Le notizie più importanti sono quindi altre. La prima è che Kepler funziona, e funziona bene. Questo potrà sembrare banale, perché noi tendiamo a dare per scontato che la tecnologia funzioni, soprattutto quella avanzata. La realtà però è ben diversa: a funzionare (quasi) sempre bene è la tecnologia vecchia, mentre quella d’avanguardia ha spesso dei problemi, proprio perché non è ancora ben collaudata. Questo fatto si accentua quando si deve operare in condizioni proibitive, come quelle dello spazio: si pensi solo che circa la metà delle sonde spedite su Marte ha fatto fiasco, qualche volta per errori umani (clamoroso quello che ne mandò una a schiantarsi perché nei suoi sistemi informatici erano stati immessi due codici che usavano differenti unità di misura), ma assai più spesso semplicemente perché viaggiare nello spazio è difficile.
La seconda buona, anzi ottima notizia è che ormai siamo davvero ad un passo dallo scoprire un pianeta grande (cioè piccolo) come la Terra. Questa è veramente una cosa straordinaria, se si pensa che solo 15 anni fa non si conosceva nessun pianeta extrasolare e molti astronomi pensavano che non esistessero proprio, mentre ancora pochissimi anni fa si riuscivano a individuare solo pianeti diverse volte più grandi di Giove, cioè centinaia o migliaia di volte più grandi della Terra. Ora invece siamo arrivati a sole 1,4 masse terrestri (il record è di Kepler-10b, un pianeta roccioso annunciato già il 10 gennaio senza suscitare, chissà perché, nessuna particolare enfasi), per cui non è esagerato dire che il traguardo è davvero a portata di mano e quasi certamente sarà tagliato proprio da Kepler nei prossimi mesi, se non addirittura nelle prossime settimane, dato che nella lista vi sono ben 68 candidati con un raggio inferiore a 1,25 volte quello terrestre.
Più in generale, le osservazioni di Kepler hanno definitivamente confermato che i pianeti piccoli sono in realtà la maggioranza e che la schiacciante prevalenza di giganti gassosi nelle osservazioni da terra era dovuta, come correttamente si riteneva, solo ai limiti degli strumenti (un pianeta più grande è ovviamente più facile da individuare che uno piccolo). Addirittura, secondo gli esperti della NASA, un’estrapolazione statistica su questi primi dati condurrebbe alla conclusione che circa il 6% delle stelle della nostra galassia dovrebbe avere almeno un pianeta della taglia della Terra o al massimo di dimensioni doppie, il che significa qualcosa come una decina di miliardi di pianeti di dimensioni terrestri, se non di più.
Certo, un pianeta delle dimensioni della Terra non significa ancora un pianeta simile alla Terra: e infatti quasi tutti i pianeti fin qui individuati sono troppo vicini alla loro stella per avere temperature tali da consentire lo sviluppo di forme di vita di qualsiasi tipo (anche se per una sessantina di loro le condizioni potrebbero essere meno drammatiche, perché orbitano intorno a stelle decisamente più fredde del nostro Sole: il problema è che in questi casi si tratta perlopiù di pianeti gassosi, inadatti alla vita). Tuttavia tale situazione dipende essenzialmente dal fatto che Kepler non ha potuto finora identificare pianeti con orbite più lunghe di 136 giorni terrestri (corrispondenti come dimensione all’incirca a quella di Venere), dato che questa è per l’appunto la sua “anzianità di servizio”. Per l’arrivo del primo vero “gemello” della Terra bisognerà quindi aspettare ancora un po’, verosimilmente altri 5-6 mesi, quando Kepler comincerà a trovare pianeti con un periodo orbitale di circa un anno e quindi con una distanza dalla stella simile alla nostra, tale da consentire temperature più “umane” e la presenza di acqua liquida, essenziale alla vita, almeno come la conosciamo.
L’ultima importante notizia è però negativa, ed è la grande variabilità dei sistemi planetari che sembra emergere dalle osservazioni, in particolare proprio dalla scoperta del sistema Kepler 11. Infatti, anche se è (ovviamente) falso che la disposizione dei suoi pianeti sia «contraria alle leggi della fisica», come ha detto qualche cronista televisiva in vena di esagerazioni, certo essa è sorprendente e non si spiega nel quadro degli attuali modelli. Probabilmente la sua genesi ha richiesto l’intervento di qualche meccanismo di “migrazione planetaria”, già ipotizzato per altri casi, ma ancora non ben compreso, che ha fatto sì che i pianeti si spostassero dal luogo dove si sono originariamente formati per assestarsi poi sulle nuove orbite.
Per quanto interessante dal punto di vista degli esperti di dinamica planetaria, tale eventualità potrebbe avere ripercussioni negative circa la questione dell’abitabilità, perché significherebbe che anche piccole variazioni nelle dimensioni relative dei pianeti potrebbero portare a grandi cambiamenti nella struttura globale del sistema e forse anche nella composizione stessa dei pianeti. Se così fosse, per avere una vera “Terra gemella” potrebbe essere necessario che non solo le sue caratteristiche, ma anche quelle dei suoi compagni fossero molto simili a quelle dei pianeti del sistema solare, il che ne ridurrebbe drasticamente la probabilità.
Come si vede, dunque, le indicazioni circa la possibilità che esistano molti pianeti adatti alla vita nella nostra galassia non sono ancora univoche, anche se nell’insieme il barometro punta ormai decisamente verso il bello. Ma se la “Terra gemella” non dovesse arrivare a breve, allora probabilmente molte valutazioni dovranno essere riviste e bisognerà cominciare seriamente a preoccuparsi. A Kepler (si spera entro pochi mesi) l’ardua sentenza.
Campo visuale di Kepler con le posizioni dei candidati esopianeti classificati per dimensioni
(credit: Nasa-Kepler team).
Periodo orbitale e temperature stimata dei candidati esopianeti
(credit: Nasa-Kepler team).