I raggi cosmici sono noti oramai da più di cento anni, eppure ancora oggi fatichiamo ad apprendere appieno dove si originano. I risultati che sta ottenendo un esperimento chiamato Pamela (Payload for Antimatter Matter Exploration and Light-nuclei Astrophysics), un’impresa scientifica internazionale a larga partecipazione italiana, coordinata dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), ci aiutano a gettare nuova luce sull’argomento.



A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, tra le incredibili serie di scoperte compiute in quegli anni, ci fu quella della radioattività. In maniera altrettanto incredibile ci si accorse che i rivelatori mostravano segnali anche quando completamente schermati dalle sorgenti di radioattività note.

Questo significa che esiste una radiazione, diffusa ovunque, di un’origine che era allora ignota. Ci vollero pochi anni per capire, grazie ai lavori dell’italiano Domenico Pacini e dell’austriaco Victor Hess (che vinse il premio Nobel nel 1936 per questo), che in effetti questa radiazione non proveniva affatto dalla Terra, ma dallo spazio.



Da qui il nome di raggi cosmici. Il metodo utilizzato per accorgersene fu semplice quanto ingegnoso: collocando i rivelatori a bordo di un pallone aerostatico risultò che più si aumentava la quota più aumentava il flusso di questa radiazione. Un chiaro indizio dell’origine extra-terrestre.

Oggi sappiamo con precisione di cosa sono composti i raggi cosmici: si tratta per lo più di particelle cariche, per il 95% protoni e per il 5% elio, con tracce di altre particelle. I recenti risultati di Pamela riguardano proprio questa componente principale. Queste particelle ci arrivano dallo spazio ad altissima energia, tanto che i fisici delle particelle usarono all’inizio i raggi cosmici per i loro esperimenti prima di costruire gli acceleratori. I risultati di Pamela coprono il range di energie tra 1 GeV e 1.2 TeV (sono le energie raggiunte nei grandi acceleratori di particelle).



 

Per studiare i raggi cosmici, è conveniente posizionarsi nello spazio, prima che essi interagiscano con la nostra atmosfera, che ci scherma parzialmente da essi e nell’interazione dà origine a sciami di particelle via via meno energetiche, i cosiddetti raggi cosmici secondari che sono quelli che arrivano effettivamente a terra.

 

Pamela, frutto di una collaborazione tra Infn e le agenzie spaziali italiana e russa, è stato lanciato nel 2006 e orbita intorno alla Terra a bordo del satellite russo Resurs-DK1. Le sue caratteristiche fanno sì che possa studiare lo spettro dei raggi cosmici, ovvero il flusso di particelle per intervallo di energie, con una precisione mai raggiunta prima, rivelando dettagli che erano rimasti nascosti ai precedenti esperimenti.

Se abbiamo capito che l’origine dei raggi cosmici è esterna alla Terra, non significa però che abbiamo identificato il meccanismo che accelera le particelle a queste energie. L’ipotesi attualmente più accreditata è che siano le onde d’urto delle esplosioni di supernova, ovvero i violenti eventi che pongono fine alla vita delle stelle più massicce, all’interno del mezzo interstellare a causare l’accelerazione delle particelle. Nel corso degli anni sono stati sviluppati dettagliati modelli del processo, che sono stati messi a confronto con i risultati di Pamela in un articolo pubblicato all’inizio di marzo su Science.

 

I risultati indicano innanzitutto che lo spettro dei protoni, pur essendo molto simile a quello dell’elio, non è identico. Inoltre, anche la forma dei singoli spettri non è esattamente quella che ci si aspettava, ma presenta delle strutture su un livello di dettaglio che prima non era osservabile. Entrambi questi fatti non sono previsti dal modello delle onde d’urto di supernova e sembrano indicare la presenza di altri meccanismi, in particolare di un meccanismo diverso di accelerazione per i protoni da quello per i nuclei di elio.

 

I protoni potrebbero essere accelerati nell’esplosione di supernove più piccole – in cui l’atmosfera stellare è ricca per lo più di protoni – e i nuclei di elio in stelle più grandi, in cui l’atmosfera stellare è più ricca di elio, e queste differenti condizioni potrebbero produrre le diverse dipendenze dei loro flussi dall’energia osservate da Pamela. Ci sono anche spiegazioni più esotiche, che coinvolgono la materia oscura, uno dei misteri più grandi della fisica attuale. Di sicuro, questi risultati costringono a rivedere l’idea che ci si era fatta. Ma rimane, immutato, e forse ingigantito, il desiderio di conoscere questi fenomeni e di capire un poco di più come è fatto l’universo.