Com’è noto, l’olografia è una tecnica ottica sviluppatasi negli anni Sessanta con l’avvento del laser, che consente di ottenere immagini tridimensionali. Guardando l’ologramma di un oggetto da angolature diverse è perciò possibile osservare lo stesso oggetto da prospettive differenti e cogliere particolari nascosti che una semplice fotografia non è in grado di mostrare. Per realizzare un ologramma è necessario utilizzare la luce coerente di un laser e lastre fotografiche ad altissima risoluzione.



Il procedimento di registrazione di un ologramma, nella sua forma più semplice – quella proposta dallo stesso Gabor, l’ideatore dell’olografia – consiste nell’inviare sulla lastra fotografica due differenti contributi luminosi: la luce diffusa dall’oggetto di interesse, opportunamente illuminato con un fascio laser, e un secondo fascio luminoso (chiamato fascio di riferimento) proveniente dalla stessa sorgente laser. Il risultato della sovrapposizione di queste due onde luminose è una fitta e intricata figura d’interferenza che, una volta ri-illuminata con il fascio di riferimento (dopo avere sviluppato la lastra fotografica) permette di ricostruire per diffrazione lo stesso fronte d’onda generato dall’oggetto durante la fase di registrazione. L’ologramma perciò restituisce una visione dell’oggetto come se questo fosse ancora presente sulla scena e diffondesse la luce del laser attraverso la lastra fotografica.



Modificando opportunamente il procedimento di registrazione (che comunque deve sempre essere effettuato con luce laser) è possibile ottenere ologrammi che possono essere osservati direttamente in luce bianca. È il caso, ad esempio degli ologrammi incisi sulle carte di credito. Le immagini restituite da questi ologrammi sono a colori e molto appariscenti ma, se osservate con attenzione, mostrano i propri limiti: infatti i colori non sono quelli reali dell’oggetto riprodotto e cambiano a seconda dell’angolo con cui l’ologramma viene osservato.

Per superare questi limiti, recentemente un gruppo di ricercatori giapponesi ha messo a punto una nuova tecnica olografica che sfrutta il fenomeno dei “plasmoni superficiali”. Col termine plasmoni superficiali sono normalmente indicate delle “quasi-particelle” risultanti dalla quantizzazione delle oscillazioni collettive degli elettroni liberi (plasma) che propagano come onde superficiali in film metallici (tipicamente di oro e argento) molto sottili. Opportunamente eccitati (ad esempio per mezzo della radiazione luminosa), i plasmoni superficiali generano campi elettromagnetici che danno luogo a onde evanescenti fortemente confinate in prossimità della superficie metallica.



L’idea dei ricercatori giapponesi è stata quella di riuscire a eccitare onde evanescenti di diverso colore sfruttando la dipendenza della frequenza di eccitazione dei plasmoni dall’angolo di incidenza della luce. Per questo motivo gli ologrammi, dopo essere  stati registrati su fotoresist con radiazioni laser dei tre colori fondamentali (rosso, blu e verde),  vengono ricoperti con un sottilissimo (appena 55 nanometri di spessore) strato di argento. Poiché il fotoresist è un materiale che registra la complessa figura d’interferenza che ricopre l’ologramma sottoforma di sottili solchi superficiali, anche la pellicola d’argento che lo riveste viene deformata e modulata in modo da riprodurre lo stesso interferogramma.

Quando, in fase di ricostruzione, l’ologramma viene illuminato con tre fasci di luce bianca correttamente orientati, vengono eccitati i plasmoni superficiali risonanti con le frequenze dei tre colori fondamentali. A causa della modulazione superficiale della pellicola d’argento, le onde evanescenti associate ai plasmoni diventano radiative (vengono cioè diffratte dal reticolo inciso sul fotoresist) e ricostruiscono il fronte d’onda originalmente diffuso dall’oggetto. È in questo modo possibile osservare l’immagine tridimensionale dell’oggetto originale nei suoi colori veri, indipendentemente dall’angolo di osservazione.

Questa nuova tecnologia sembra molto promettente e, a detta dei ricercatori che l’hanno messa a punto, potrebbe essere tradotta in tempi molto brevi in applicazioni tecnologiche di uso comune come, ad esempio, monitor in 3D che non richiedano l’utilizzo di occhiali polarizzanti.