Una delle peculiarità dell’astrofisica, che la distingue dalla gran parte delle altre scienze, è quella di studiare oggetti al di fuori della nostra portata. Così, quando ci stupiamo guardando le spettacolari immagini del telescopio Hubble, sappiamo anche che non potremo mai raggiungere gli oggetti ritratti. Non parliamo poi di provare a riprodurli: chi mai potrebbe pensare di ricostruire una stella o una galassia in laboratorio?
Questo è uno degli aspetti che rende affascinanti l’astrofisica; è davvero incredibile come, pur non avendo mai abbandonato il sistema solare, gli uomini abbiano potuto capire così tanto di come è fatto l’universo. D’altro canto, il non poter fare degli esperimenti rende molto difficile l’applicabilità del cosiddetto metodo scientifico, che non a caso viene chiamato “metodo sperimentale”. Da sempre lo strumento principe di indagine della comunità astrofisica è stata l’osservazione, che rappresenta una sorta di “esperimento non controllato”: non è lo scienziato a poter scegliere quando far avvenire un dato evento o a controllare i parametri in gioco, ma anch’egli deve sottostare a ciò che la natura gli sottopone.
Negli ultimi anni, con l’avvento dell’era informatica, stanno prendendo sempre più importanza le simulazioni: grazie alla potenza di calcolo dei moderni computer, è in un certo senso possibile ricostruire una stella o una galassia qui sulla Terra, ma all’interno del nostro calcolatore. Tuttavia, di volta in volta è di fondamentale importanza sincerarsi che i codici che utilizziamo catturino il reale andamento del sistema fisico in esame, che rimane sempre infinitamente più ricco di quello che è possibile simulare.
Questo è uno dei motivi che ha spinto recentemente un gruppo di scienziati, per la gran parte italiani, a riprodurre in laboratorio dei getti astrofisici. Le strutture dei getti si trovano in molti casi studiati dagli astrofisici, in particolare intorno ai buchi neri supermassicci, agli oggetti compatti e alle stelle più giovani, e consistono nell’emissione estremamente collimata di gas a velocità elevate, in alcuni casi prossime a quella della luce. Questi getti coprono distanze enormi, e quelli emessi dal centro delle galassie costituiscono le strutture singole più grandi conosciute nell’universo.
Già solo le dimensioni impongono dunque che non è possibile ricostruire nei nostri laboratori le stesse strutture che vediamo con i telescopi; è tuttavia possibile ricreare delle condizioni che siano dinamicamente simili, in modo da produrre queste strutture su scale differenti. Le condizioni ricreate in laboratorio in questo caso sono simili a quelle che troviamo nei getti intorno alle stelle appena nate.
Comprimendo dell’elio o dello xeno con un pistone e accelerandolo a velocità supersoniche tramite un ugello, simile a quelli usati nei moderni motori a reazione degli aeroplani, i ricercatori hanno prodotto il getto. Esso poi è stato fatto propagare in una camera di circa 2,5 metri di lunghezza, riempita, a seconda delle configurazioni, di xeno o aria. Per rendere visibile il getto, esso viene intercettato a un certo punto della camera da un fascio di elettroni, che eccitano gli atomi che lo compongono; diseccitandosi, essi si rendono luminosi e diventano visibili da una fotocamera ultrarapida.
Due sono i risultati conseguiti dal team di scienziati, una collaborazione tra Politecnico di Torino, Politecnico di Milano, Università di Torino e del Max-Planck-Institut a Goettinga. Per prima cosa, il gruppo si è occupato anche di simulare l’esperimento tramite un codice largamente utilizzato in astrofisica e ha confrontato i risultati degli esperimenti con quelli delle simulazioni.
In generale è stato trovato un buon accordo, il che è un importante conferma del codice utilizzato. Inoltre, i getti ricostruiti presentano molte caratteristiche di quelli realmente osservati, come la persistenza su lunghe distanze e la presenza di un “bozzolo” che circonda il getto, almeno in uno dei due casi ricostruiti. Ciò significa che si tratta di proprietà dei getti altamente supersonici e per essere spiegate non richiedono ulteriori meccanismi – sui quali è in corso un ampio dibattito in astrofisica – come, ad esempio, i campi magnetici.