Sono più volte comparse sulla stampa quotidiana e di divulgazione scientifica notizie più o meno allarmistiche sull’aumento della frequenza con cui gli iceberg si staccano dai ghiacciai dell’Antartico a causa di vari fenomeni legati al riscaldamento globale dell’atmosfera, che come è noto sta provocando le variazioni termiche più sensibili alle alte latitudini. Sono quindi spesso circolate notizie e immagini satellitari sulla riduzione stagionale della calotta di ghiacci del Polo Nord e sui distacchi di enormi masse ghiacciate nei mari attorno al continente antartico; in quest’ultimo caso si tratta peraltro di fenomeni che accadono quasi sempre attorno alla Penisola Antartica e all’adiacente Mare di Weddell, cioè nelle zone più settentrionali del continente, quelle per intendersi che si protendono verso l’estremità meridionale del Sud America.



Fra i tanti allarmi si inserisce come una nota positiva, o per lo meno in contro tendenza, la recente pubblicazione sulla rivista di oceanografia Deep Sea Research (Elsevier) di un ampio studio sugli effetti biologici degli iceberg antartici, che ci sembra una buona dimostrazione non solo della complessità dei fenomeni naturali, ma anche di quanto la natura spesso tragga vantaggio da ciò che a noi può sembrare solo un fenomeno negativo.



In questo studio, articolato su ben 19 memorie scientifiche, sono sintetizzati i dati raccolti dal biologo marino Ken Smith dell’istituto californiano del MBARI (Monterey Bay Aquarium Research Institute) e da una squadra di ricercatori appartenenti a una dozzina di altri istituti, nel corso di tre lunghe crociere di studio condotte dal 2005 al 2009, all’inseguimento di iceberg staccatisi dalla banchisa antartica del Mare di Weddell e alla deriva nell’oceano meridionale.

Il percorso di numerosi iceberg – spesso di dimensioni enormi, quasi delle isole – é stato seguito tramite sensori GPS che sono stati depositati sulla loro superficie mediante un piccolo velivolo radiocomandato. Durante il progressivo scioglimento, gli iceberg sono stati inoltre monitorati mediante uno speciale robot sottomarino, appositamente sviluppato presso il MBARI, in grado di raccogliere, fino ad una profondità di 600 m, le particelle di sedimenti, di alghe e altri residui di varia natura rilasciati dall’iceberg al suo passaggio.



È la prima volta che con un apparecchio di questo tipo si riescono a mappare con sufficiente precisione le “scie di sedimenti” lasciate da iceberg di enormi dimensione, quali quelli che Ken Smith e compagni hanno seguito nelle loro spedizioni (uno di questi smisurati blocchi di ghiaccio era lungo 35 km, largo 6 km ed emergeva dal mare di 28 m). Si tratta specialmente di sedimenti ricchi di ferro provenienti dalle terre antartiche, che hanno un benefico effetto di fertilizzazione sulla massa algale marina e di conseguenza su tutta la catena alimentare che da essa prende origine.

In effetti i ricercatori hanno messo a confronto la quantità di carbonio che affonda normalmente nell’oceano (come risultato finale di tutti i processi organici che si svolgono nell’acqua marina) e quella che viene rilasciata a seguito del passaggio di un iceberg, e hanno scoperto che attorno a queste montagne di ghiaccio, per un raggio che può arrivare a 30 km, la quantità di carbonio che affonda in profondità è circa il doppio del normale. In sostanza, a causa dell’effetto fertilizzante dei sedimenti rilasciati dagli iceberg in scioglimento, aumenta la quantità di alghe microscopiche che vivono nel mare e di conseguenza aumenta il loro normale “consumo” di anidride carbonica atmosferica; così le alghe fissano il carbonio atmosferico e al termine del loro ciclo vitale lo depositano sul fondo dell’oceano.

Saranno sicuramente necessari ulteriori studi per meglio quantizzare la portata globale di questo fenomeno, ma estrapolando le attuali osservazioni all’intero Mare di Weddell, i ricercatori del MBARI valutano che la maggior “produzione” di iceberg (sia i grandi che i piccoli), dovuta all’evoluzione in atto delle condizioni atmosferiche attorno all’Antartico, possa svolgere un ruolo importante nella rimozione del carbonio atmosferico.

Il lavoro di Ken Smith e compagni non è peraltro finito, e proprio nella direzione indicata ora stanno lavorando alla messa punto di strategie e di nuove apparecchiature che permettano di seguire in modo automatico, per lungo tempo e su più larga scala l’effetto di fertilizzazione degli oceani dovuto agli iceberg. Per intanto un nuovo fenomeno si va ad aggiungere ai numerosi effetti di interazione atmosfera-oceani di cui bisogna tenere in conto nella complessa modellizzazione del clima terrestre.