Le novità scientifiche e tecnologiche offrono continui spunti per riflettere sulle prospettive e sulle ampie implicazioni generate dalla sviluppo senza sosta di quelle che ormai molti definiscono le tecno scienze. Una sollecitazione interessante viene da un libro appena uscito da Jaca Book dal titolo originale e provocatorio “Scienza della natura e stregoni di passaggio”. Abbiamo chiesto a uno degli autori, il biologo Alessandro Giuliani che ha firmato il volume insieme a Carlo Modonesi) di raccontarci come è nata e cosa ha orientatola loro riflessione.



Quando il comune amico Sante Bagnoli, direttore di Jaca Book,  propose a Carlo Modonesi e a me di provare a buttare giù una sorta di ‘pamphlet’ che denunciasse le macroscopiche aporie e vere e proprie grossolanità dell’odierna tecnocrazia fui insieme felice e perplesso.

La felicità nasceva chiaramente dalla fiducia accordataci da Sante per un compito che lui (e chiaramente anche noi) riteneva molto importante nell’odierno dibattito culturale e politico e cioè quello della critica razionale delle scienze dal loro interno. La perplessità derivava invece dal fatto che se volevamo che il nostro lavoro avesse un senso dovevamo eliminare (o comunque mettere sullo sfondo) le nostre personali convinzioni e basarci esclusivamente sulla ‘parte tecnica’ del discorso scientifico. In altre parole, la critica sarebbe stata efficace se avessimo dimostrato che la scienza utilizzata da questi odierni stregoni fosse un “pochino tarocca” viziata da errori metodologici e di misura.



Il che poi è proprio così, non è difficile per chi abbia una decente formazione statistica accorgersi della pochezza e sostanziale  inconsistenza dei proclami di controllo totale della natura che ci vengono propinati non solo dai media generalisti ma anche (e qui nasce la perplessità) dalle riviste scientifiche di punta. Ma come farlo capire ? Come avvertire che un re così pomposamente vestito è di fatto nudo ?

Il dubbio insomma era che “lì fuori” avremmo trovato veramente poche persone in grado di comprendere la totale mancanza di ragionevolezza dei proclami di tanta parte dell’odierna tecno-scienza. Mancanza di ragionevolezza non per motivi etici, filosofici, morali (qui il dibattito non manca ..) ma proprio squisitamente tecnici, insomma Carlo ed io continuavamo a domandarci come mai il dibattito sulla tecnoscienza fosse polarizzato tra chi ne magnificava le sorti e il ruolo liberatorio e chi ne metteva in luce il carattere maligno e oppressivo mentre mancassero completamente delle voci che semplicemente dicessero: guardate che la cosa semplicemente non funziona perché non è credibile.



Nessuno dice niente, eppure i farmacologi sanno che da trenta anni a questa parte il numero di nuovi farmaci immessi sul mercato è crollato (ma non avevamo preso il controllo sul mondo biologico?), gli agrari sono consci che la tecnologia OGM è farraginosa e sostanzialmente poco produttiva, gli epidemiologi sono al corrente dello sconsolante insuccesso di quaranta anni di lotta contro il cancro, i fisici comprendono benissimo che la teoria delle stringhe (con tutto il corollario mediatico di Universi Eleganti e simili svolazzi …) non può essere provata sperimentalmente ed è quindi tutt’al più un manieristico esercizio matematico.

Nel frattempo, fuori dai riflettori, si sta faticosamente costruendo una nuova scienza sensibile alla complessità della natura e umilmente attenta alla realtà delle cose. Ma come spiegarlo se nei corsi di statistica che spesso mi capita di fare in varie università e centri di ricerca debbo ahimè notare come l’iper specializzazione abbia fatto terra bruciata di quel senso comune statistico che era uno dei  principali ferri del mestiere dello scienziato ? Analogamente Carlo, dal suo punto di vista di naturalista, notava un’analoga (e pericolosissima) disaffezione verso l’osservazione del reale, di quell’arte delicata legata all’osservazione sul campo raggiunta coltivando l’esprit de finesse per i particolari apparentemente irrilevanti ma in realtà sostanziali.

Insomma ci trovavamo d’accordo nel lanciare un grido d’allarme per una scienza che, mentre si proclamava sempre più forte e potente, perdeva inesorabilmente proprio le sue armi più efficaci, quelle che avevano permesso la sua affermazione. Il futuro della conoscenza ci appariva insomma indissolubilmente  legato al rilancio di quel «canone» artigiano che a partire dal ’600 aveva ispirato la grande tradizione scientifica occidentale e che ora rischiava di scomparire lasciando in piedi solo un osceno simulacro di scienza, a ben veder il suo esatto contrario. Una tradizione basata sulla contemplazione della natura insomma, che si trasformava in una cucina di stregoni pasticcioni.

Nella pratica scientifica, la scelta di adottare o meno il canone artigiano segna la differenza tra la «bella» e la «brutta » scienza, e permette di individuare i metodi più utili per lo studio della natura. Difficilissimo, se non impossibile, anche solo offrire i primi rudimenti di tale canone, l’unica strada per noi era allora quella di farne intuire l’aroma, di farne comprendere le ragioni attraverso il legame con la ‘primaria esperienza estetica’ che tutti ci accomuna. Insomma partendo dalla semplice constatazione che tutti preferiamo passeggiare lungo un sentiero delle Dolomiti piuttosto che sul lato della tangenziale est, e che quindi un bello di natura esiste eccome e non si tratta solo di puro soggettivismo.

Abbiamo allora cercato di scoprire le tracce di questa bellezza nel modo in cui l’uomo conosce la natura. In altre parole la scommessa è stata: “Se la natura racchiude in sé tracce di una bellezza condivisa, allora la bella scienza sarà quella che riesce a intercettare queste tracce e riportarle visibilmente nelle sue spiegazioni”.

Noi speriamo che questa scommessa sia stata compresa e fatta propria dai lettori, lo speriamo di cuore in questi tempi in cui le scienze naturali e le tecnologie derivate stanno attraversando un momento particolarmente critico perché tuttora ancorate ai vecchi miti del riduzionismo e della spiegazione monocausale dei fenomeni che per definizione fa a pezzi la bellezza proprio perché non riconosce la compresenza della  miriade di tenui vincoli e relazioni armoniche che costituiscono il carattere essenziale della bellezza della natura.

Incidendo come mai accaduto prima sulle dinamiche del pianeta e sul futuro stesso della nostra specie, le scienze naturali si trovano oggi in prossimità di un bivio. Se in futuro prevalesse l’ideologia riduzionista, che tende a cancellare la trama complessa dell’ecologia terrestre, ogni possibilità di rinnovare la cultura della scienza sarebbe preclusa e la natura sarebbe totalmente reificata, resa merce e sfruttata al pari di un mero deposito di risorse.

Stregoni pericolosi insomma ma, noi crediamo, “di passaggio”, destinati a lasciare il posto ad una riconquista della bellezza del sapere scientifico che ci riconcili col mondo. Già oggi la letteratura scientifica più accorta mostra di aver superato gli steccati delle «discipline» e di essersi affrancata dalla stretta del riduzionismo. Una «scienza della natura» può esistere, a patto di recuperare quel senso del concreto che è il requisito essenziale di ogni vero cambiamento nel modo di pensare, di vivere e di agire.