Ancora una volta ci troviamo a raccontare nuovi progressi nelle tecnologie legate all’approvvigionamento energetico. Più che esserne stanchi, ne siamo realmente affascinati: nel mondo della ricerca infatti la novità è sempre dietro l’angolo, tanto più in un campo variegato ed esteso come quello delle nuove tecnologie e delle nuove fonti energetiche. Ma c’è di più: quando la fantasia e l’intraprendenza dei ricercatori sembra non trovare nuove strade, ecco che in alcuni fortunati e imprevedibili casi la realtà stessa può dare uno spunto determinante per una nuova scoperta, fosse anche a causa di un errore. Gli americani la chiamano serendipity.



La storia, dunque: alcuni ricercatori da due delle più importanti università del mondo -Harvard e Berkeley- lavorano congiuntamente a un nuovo tipo di cella solare, con l’obiettivo di renderne più efficiente la resa. Le celle solari infatti forniscono una quantità di elettricità effettiva totale bassa rispetto a quella che potenzialmente è disposizione al momento dell’impatto dei fotoni con la superficie della cella. Il problema è tanto interessante dal punto di vista fisico quanto di difficile superamento, in quanto non si tratta di normali “perdite”, come può avvenire in altre situazioni (per esempio un acquedotto che perde parte dell’acqua che trasporta perché essa viene dispersa nei giunti, per evaporazione, ecc.).



Per comprenderlo è necessario entrare -seppur in modo schematico e superficiale- nel funzionamento di una cella solare: le cariche che si generano alla superficie della cella al momento dell’interazione dei fotoni sono sempre in coppie di segni opposti, che vengono attratte da un parte o dall’altra a seconda della loro carica, essendo la cella sede di una differenza di potenziale. Le cariche positive (chiamate “lacune”) si mettono in viaggio verso il polo negativo del potenziale, mentre quelle negative (gli elettroni) vanno verso il polo positivo.

Qui nascono i problemi: le cariche in viaggio, infatti, vengono più velocemente ricombinate con altre cariche di segno opposto che si trovano in superficie prima di essere raccolte ai capi del potenziale, facendo diminuire la differenza di potenziale e impedendo così la formazione della corrente. La corrente perciò non viene dispersa, ma letteralmente svanisce. Risultato: le normali celle solari hanno una efficienza solitamente poco sopra il 10%.



Il fatto nuovo occorso ai ricercatori è assolutamente casuale e non voluto. Il particolare tipo di cella sviluppato utilizza dei nano-cavi di silicio monocristallino che si accrescono ordinatamente a partire da un’“esca”, una piccola particella d’oro. Durante il processo di accrescimento la particella d’oro di un nano-cavo è andata persa e il silicio ha iniziato a crescere amorfo, ricoprendo anche i nano-cavi già formati.

I ricercatori hanno deciso di non buttare via questi prodotti e di utilizzarli comunque.  I fatti successivi dicono che hanno fatto benissimo: l’efficienza dei nuovi pezzi “difettosi” infatti è sorprendentemente migliore di qualsiasi aspettativa, anche rispetto ai pezzi “normali”. Come mai? Quello che è avvenuto è in realtà del tutto simile a un procedimento che si utilizza nella costruzione dei microchip, e va sotto il nome di passivazione, ovvero il procedimento di ricopertura di un metallo tramite la formazione di uno stato ossidato. Questo processo, pur noto, non è praticamente mai stato utilizzato nella realizzazione delle celle fotovoltaiche.

Un’analisi sulle correnti interne al nano-cavo a precisione mai raggiunta prima, ha permesso di effettuare importanti valutazioni quantitative del fenomeno. La ricombinazione superficiale delle coppie elettrone-lacuna è diminuita circa cento volte, ma non solo: i cavi ricoperti vantano una fotosensibilità circa 90 volte maggiore di quelli non ricoperti. Maggiore capacità di raccolta di luce e creazione di coppie di portatori di carica e migliore efficienza: insomma, un sogno a occhi aperti …

Ma i fisici vogliono capire: Yaping Dan, uno dei ricercatori, pensa che la ricopertura crei una barriera di potenziale per le cariche nel reticolo del nano-cavo, confinandole nel cavo stesso e impedendone la ricombinazione. «I nano-cavi offrono un’alta energia di conversione a basso costo -commenta Kenneth Crozier, Professore Associato alla Harvard School di Ingegneria e Scienze Applicate- e semplicemente ricoprendoli con un sottile strato di silicio si riduce la ricombinazione di due ordini di grandezza. Ora possiamo sfruttare i vantaggi dei nano-cavi superando alcune difficoltà legate alla loro produzione».

Così, come accade in altri campi, spesso è solo grazie a un evento casuale e non preventivato che la nostra conoscenza riesce a crescere, mettendo in connessione fra loro cose già note e guardandole come mai prima d’ora avremmo pensato di fare.