In un precedente contributo abbiamo citato il triticale come esempio di miglioramento genetico che offre spunti per diverse considerazioni sul tema dibattuto degli Ogm. La vicenda merita ulteriori considerazioni. Come quella che il triticale ha avuto, dal punto di vista genetico, uno stravolgimento enorme per quanto riguarda il suo DNA e i geni in esso contenuti.
È pura follia parlare di “modifica genetica” per una pianta transgenica di soia in cui è stato inserito un gene della pianta stessa per eliminare, ad esempio, un allergene potenzialmente mortale; come è follia considerare solo questa modificazione così pericolosa da impedirne la commercializzazione (e in un Paese come l’Italia è impedita anche la coltivazione in campo a soli fini di ricerca). Nello stesso momento si passa sotto silenzio che creare una nuova specie come il triticale comporta modificazioni genetiche su vastissima scala con rischi non trascurabili e comunque molto ma molto più reali della soia sopra menzionata.
Ricordo che immettere sul mercato una nuova varietà di frumento o di patata non richiede una verifica sperimentale puntuale della sua pericolosità dal punto di vista ambientale e sanitario, nonostante si siano verificati in passato casi di danni accertati con nuove varietà, per esempio, di patata o di sedano. Non sto invocando qui sulle piante convenzionali una normativa restrittiva uguale a quella soffocante che grava su quelle transgeniche, ma che si riconosca che la transgenesi non è altro che l’ultimo modo (e il più preciso!) per modificare i geni degli organismi. La precisione della tecnica non implica automaticamente certezza di innocuità, ma neanche il suo contrario. Vale a dire che occorre giudicare ogni nuova pianta, prodotta per transgenesi o con metodi meno precisi, in base alle sue caratteristiche e non al metodo usato per crearla.
Alcuni ammettono che tutte le piante coltivate dall’uomo siano in qualche modo geneticamente modificate e quindi la transgenesi non sarebbe intrinsecamente pericolosa, ma sostengono che l’Italia non avrebbe bisogno dei transgenici e quindi non avrebbe neanche bisogno di coltivarli. L’Italia, dicono, ha la sua biodiversità (ricchezza di varietà) e peculiarità di prodotti da esportare che verrebbero messi in pericolo perchè diventerebbe tutto omologato. Il transgenico va bene nei posti di grandi distese, ma qui da noi – continua l’argomentazione – la ricchezza di prodotti, la reddittività e l’impiego intelligente può garantire ai nostri agricoltori la sopravvivenza economica e ai consumatori un circuito alimentare sano e di qualità.
Se i transgenici non portano benefici alla nostra agricoltura, allora il problema non si pone perchè i coltivatori non avrebbero alcun motivo per coltivarli. Non è però noto ai più che l’Italia importa 4 milioni di tonnellate all’anno di soia e derivati che sono transgenici tra l’80% e il 100%, essendo importati dal Sud America, dove la soia transgenica è ampiamente coltivata. Guardare la banca dati Fao per credere.
Senza queste importazioni non riusciremmo neanche a produrre tutti i prodotti tipici, come Parmigiano e Prosciutto di Parma, perché la produzione italiana copre meno del 20% del fabbisogno. Se la soia transgenica comportasse problemi sanitari, oso sperare che i minsteri competenti ne avrebbero vietato da tempo l’importazione a salvaguardia della nostra salute. Se invece comporta solo problemi ambientali, perchè la facciamo coltivare ad altri paesi? Come una forma di neo-colonialismo, ci piace esportare i problemi verso altri paesi, ma non rinunciare alla comodità? Se invece ammettiamo che la soia transgenica non comporti problemi sanitari e ambientali, perché non possiamo coltivarla noi stessi invece che farla arrivare da 11.000 km (per esempio, dall’Argentina)? Detto per inciso, niente male per i paladini del km zero!
Per quanto riguarda il pericolo che le nostre varietà vengano spazzate via dalle varietà transgeniche, questa è farneticazione pura. Una volta che un carattere interessante viene prodotto per transgenesi o in altro modo, la nuova varietà può essere incrociata con tutte quelle esistenti così da trasferire il nuovo carattere. Testimonianza di ciò sono le oltre 600 varietà di cotone Bt (transgenico resistente agli insetti) in India, le oltre 1000 varietà di soia RR (transgenica resistente a un diserbante) in America e le oltre 100 varietà di mais Bt (transgenico resistente agli insetti) coltivate nella europeissima Spagna.
In sintesi, le piante transgeniche fanno già parte della nostra agricoltura, sono anzi indispensabili e quindi pienamente compatibili con un’agricoltura di qualità e non sono un pericolo per la biodiversità. Viene allora da chiedersi il perchè di queste obiezioni, visto che i sindacati agricoli, Coldiretti in testa, e tutti i ministri dell’agricoltura degli ultimi dieci anni sono perfettamente a conoscenza dei dati di importazione e del fatto che quasi tutti i mangimi in Italia contengono soia transgenica. Che sia puro marketing?
Tonnellate importate di soia e derivati negli ultimi anni (dati FAO)