Un punto topico della letteratura, oltre che del giornalismo e del pettegolezzo spicciolo, è quello della personalità pubblica, famosa, carismatica, vista dall’angolazione particolare del maggiordomo, dell’infermiera, del cuoco, del parrucchiere o in ogni caso di chi disponga di un osservatorio che gli consenta di scovarne il lato umano nascosto dalla preponderante immagine pubblica.
Dopo più di un quarto di secolo di lavoro nel campo della statistica e, più in generale, dell’analisi dei dati applicata alle scienze della vita, mi sono convinto di essere un po’ come l’infermiere (o il medico, il confessore, lo psicologo, il maggiordomo) di quella multiforme personalità a cui diamo il generico nome di scienza.
Praticamente tutti i commentatori dei fatti scientifici, siano essi filosofi, letterati, politici, teologi, non mettono mai in discussione un assunto di base: che se una cosa l’hanno detta gli scienziati essa deve essere dotata di una forte carica di realismo, deve insomma essere (qualsiasi cosa questo voglia dire) “un fatto oggettivo”.
Ciò provoca la curiosa distorsione che fa sì che tutti i pensatori non specificatamente interni al mestiere scientifico si fanno l’idea che discipline come la logica matematica o la teoria dei giochi (che hanno un peso abbastanza irrilevante sul formarsi delle convinzioni scientifiche) siano molto importanti per occuparsi con cognizione di causa delle scienze e piuttosto che procurarsi una decente infarinatura di analisi dei dati e teoria della misura (le uniche cose veramente importanti per giudicare della congruità delle affermazioni scientifiche) preferiscono elucubrare sull’ambiguo statuto del dualismo onda-particella o sul carattere frattale della natura.
Insomma, dando per assodato che se la “Scienza” afferma qualcosa vuol dire che ha i suoi buoni e solidi motivi, essi cadono nella trappolona brillantemente individuata da Nicolas Gomez-Davila: «La scienza inganna in tre modi: trasformando le sue proposizioni in norme, divulgando i suoi risultati più che i suoi metodi, tacendo le sue limitazioni epistemologiche».
Prima di proseguire voglio però sia chiaro a tutti che, anche se la scruto quando più è indifesa, mentre si trucca e si imbelletta, ma anche quando piange o ride di cuore o ha il mal di pancia, io amo la scienza e assolutamente non credo che suo scopo precipuo sia l’inganno; tutt’altro: è proprio perché ho un grande amore per la scienza che mi sento in dovere di difendere il suo onore da chi usurpa il suo nome per propinarci mal cucinate ideologiche pietanze.
Questa lunga introduzione per parlare appunto di una pietanza particolarmente indigesta quale è stata, circa un anno fa, la sovrastimata impresa di Craig Venter di inserire un cromosoma artificiale in una cellula ospite deprivata del nucleo. I media hanno parlato addirittura di “creazione di vita artificiale”, dove nell’intera faccenda di veramente artificiale c’era solo l’incredibile battage pubblicitario.
Tanto per cominciare, il cromosoma era artificiale solo nel senso che la sua sequenza era stata progettata a priori “copiandola” da quella di un organismo con un patrimonio genetico estremamente semplice, il micoplasma (certamente non inventandosi le sequenze a piacere). Bisogna inoltre considerare che, anche se gli elementi iniziali (brevi tratti di DNA) erano stati sintetizzati per via chimica, il macchinario sintetico per produrre l’intero genoma in termini di assemblaggio e riproduzione era comunque naturale trattandosi di cellule di lievito. Insomma, un avanzamento tecnologico, ma non certo la “vita artificiale”.
Cerchiamo comunque di chiarire ulteriormente la cosa per mostrare come ciò che normalmente i media ignorano nelle notizie scientifiche e cioè i materiali e i metodi utilizzati negli esperimenti descritti, siano la sola chiave di lettura che ci permetta di discernere il valore delle notizie. Partiremo quindi dall’inizio, dai fondamenti.
Il DNA è una molecola, più precisamente una macromolecola, un polimero biologico costituito da una catena di monomeri (detti nucleotidi) uno in fila all’altro, legati fra loro da un legame covalente a formare un lunghissimo filamento. Questa molecola consente di memorizzare delle istruzioni di tipo chimico che possono essere trasferite da una generazione di organismi a quella successiva in modo relativamente rapido ed economico. Ma certamente il DNA non è vivo, è un componente dei sistemi viventi, ma la molecola tal quale non è più viva dei componenti del dado per il brodo o di una camicia di lino.
Di fatto c’è un gran daffare da secoli sulla possibilità di una definizione concisa ed esauriente di vita, per cui mi limiterò a una definizione meramente operativa che consideri un sistema vivente come un’entità in grado di riprodursi e di rispondere efficacemente agli stimoli ambientali mantenendosi sufficientemente stabile. Siamo insomma dalle parti della definizione originale di “vita come capacità di movimento autonomo” data da Aristotele (se ci pensiamo un pochino anche le piante hanno dei movimenti funzionali al loro mantenimento come la crescita di radici fronde e il loro tropismo verso la luce e considerazioni analoghe valgono per forme di vita anche molto semplici come i batteri).
Ma torniamo al nostro polimero; nel DNA esistono quattro tipi di nucleotidi, che si differenziano per la loro natura chimica e che indichiamo con le lettere A, C, G e T. La T si accoppia con la A attraverso legami idrogeno, che sono legami non covalenti, il che significa che non implicano la costruzione di una molecola differente, ma solo la giustapposizione nello spazio di due molecole; inoltre la G si accoppia con la C. Ciò fa sì che nelle cellule il DNA si trovi sotto forma di due filamenti appaiati secondo la regola A-T/G-C che garantisce la duplicazione della molecola stessa in quanto uno dei due filamenti funge da stampo per l’altro attraverso la regola di appaiamento delle basi.
I legami non covalenti (in questo caso legami idrogeno) sono molto più deboli dei legami covalenti, per cui la stabilità del DNA deriva da miriadi di questi legami deboli che, come abbiamo detto, sono vincolati da un’alta specificità. Questo porta in primo piano una caratteristica cruciale della materia biologica: la presenza di forme molto peculiari e invarianti che derivano dalla necessità di stabilire un numero elevatissimo di legami molto specifici fra le parti.
Una molecola, però, non è un essere vivente, in quanto da sola non fa e non produce un bel nulla: per esempio, non sfrutta l’energia dell’ambiente per costruire i suoi costituenti, non si sviluppa, non muore (se mai si degrada), ecc. Un batterio invece è un essere vivente: ha una membrana con una struttura molto complessa che lo separa dall’ambiente esterno fornendogli individualità e quindi dandogli la possibilità di essere considerato un sistema, nella fattispecie, un sistema biologico. Un sistema biologico si autoregola e si dà un gran da fare per sopravvivere, inoltre si riproduce e alla fine muore.
Per tutte queste ragioni, alcune molecole potranno entrare e uscire liberamente dal sistema, alcune saranno escluse, altre saranno accumulate, altre ancora saranno prodotte (sintetizzate) oppure demolite. Tutto ciò avviene grazie a una complessa architettura molecolare di strutture (generalmente proteiche) che garantiscono un metabolismo altrimenti fisicamente impossibile. In questo quadro ricco di attori comprimari, l’unico regista è la cellula, nella fattispecie il batterio preso nella sua interezza, mentre il DNA si limita a fare le funzioni di un “deposito” di informazione per produrre le proteine.
È importante essere molto chiari su questo punto: una posizione “essenzialista” in cui il DNA è considerato come il motore immobile e unico principio causale della vita è completamente al di fuori delle evidenze scientifiche. La questione è insomma puramente ideologica: si tratta in sostanza di far balenare l’idea di una potenza praticamente infinita della tecnologia, la qualcosa non solo è falsa, ma anche molto pericolosa per l’avanzamento della conoscenza e la reale soluzione di problemi.
Questo tipo di atteggiamento si sta però profilando in maniera molto minacciosa in vari campi: si pensi, ad esempio, agli studi di risonanza magnetica funzionale che pretenderebbero di svelarci le idee e i sentimenti delle persone dalle loro mappe di attivazione metabolica del cervello, in questo caso gli svarioni metodologici sono ancora peggiori di quelli della vita artificiale.
Credo che l’unico antidoto a questa deriva sia quello di riportare il dibattito al livello strettamente artigiano della “bella scienza” del richiamo insomma a un “canone scientifico” condiviso per quel che riguarda i metodi statistici, la modellistica, la congruità delle misure, insomma tutto quello che è l’armamentario di chi la scienza la fa e non semplicemente ne commenta i risultati. Questo dovrebbe avvenire a un livello indipendente e nettamente separato da considerazioni di ordine etico o politico che, per quanto necessarie, dovrebbero non interferire con la pura valutazione di congruità di un risultato.
Altrimenti ci troveremmo (come già accade) a parlare di cose irrealizzabili come se già fossero presenti, cadendo nel gioco manipolatorio di chi vuole che la scienza sia comunque considerata onnipotente “a prescindere”, il che significherebbe la fine di quel meravigliosamente onesto e chiaro mestiere artigiano a cui diamo il nome di scienza.
Purtroppo molte forze remano contro questa richiesta di onestà, non ultima l’iper-specializzazione (completamente non necessaria, anzi deleteria) della ricerca che fa sì che sempre meno ricercatori siano consapevoli della basi metodologiche del loro mestiere limitandosi a perseguire fini limitatissimi e già decisi a priori. Ma queste difficoltà, lungi dall’abbatterci, ci devono spronare, la posta in gioco è troppo elevata per mollare…