Una ricerca che, a prima vista, sembra avere implicazioni incredibili. L’istituto scientifico universitario San Raffaele ha realizzato uno studio pubblicato sulla versione on line della prestigiosa rivista Nature in cui spiega come sia possibile generare in vitro dei neuroni dopaminergici perduti a causa del mordo di Parkinson. Il procedimento con il quale vengono prodotte le nuove cellule, si base sulla conversione delle cellule della pelle chiamati fibroblasti. «La nuova tecnica – riferiscono dal San Raffaele – si basa sull’attivazione di soli 3 geni (Mash1, Nurr1, Lmx1a) nei fibroblasti che permettono la loro trasformazione in neuroni dopaminergici». Questi neuroni, «chiamati iDA, neuroni dopaminergici indotti (induced DA neurons)» avrebbero caratteristiche molto simili a quelli umani.
La tecnica, sperimentata sotto la supervisione del Dottor Vania Broccoli, direttore nell’Unità di Cellule Staminali e Neurogenesi dell’Istituto Scientifico Universitario San Raffaele, non ha implicato la «generazione di cellule staminali potenzialmente tumorali e quindi può essere da subito utilizzato in studi pre-clinici della malattia». C’è un altro vantaggio: ad oggi ,l’unica fonte utilizzabile per la produzione di neuroni erano i tessuti fetali. Tuttavia, «la limitata disponibilità ed il loro grado di estrema eterogeneità ne hanno limitato il successo terapeutico creando anche forti perplessità di etica pubblica».
Siamo quindi di fronte ad una rivoluzione scientifica? IlSussidiario.net lo ha chiesto al professor Mauro Ceroni. Che ha invitato a tenere i piedi per terra. E’ bene, anzitutto, precisare i termine della questione: «La natura – spiega Ceroni – ha scelto, nel costruire il cervello, di farlo con cellule perenni, che ci portiamo dietro per tutta la vita. Il processo di perdita neuronale fisiologico comincia all’età di 30 anni. C’è tuttavia un forte fattore di sicurezza. Abbiamo molti più neuroni, infatti, di quanti ce ne servano per esplicare le nostre funzioni e la perdita, in condizioni normali, quindi, non dà problemi».
Le condizioni anormali insorgono proprie nel caso di malattie come il Parkinson: «è una malattia neurodegenerativa in cui determinati neuroni e sistemi neuronali, ovvero neuroni interconnessi che presiedono a una determinata funzione, degenerano in maniera significativa, con perdite che arrivano anche al 70-80 per cento».
Di norma, in questi casi, «il paziente viene curato con farmaci che riequilibrano la situazione neurotrasmettitoriale. Per esempio, dal momento che vengono meno delle cellule che usano la dopamina come mediatore, noi diamo quantità elevate del precursore della dopamina, il che consente di far regredire i sintomi».
Questo non significa tuttavia, che il morbo sia estinguibile. «Non può guarire, e tornare ad una situazione di partenza», afferma Ceroni. «In tutte le malattie neurodegenerative, non possiamo assolutamente pensare di potere sostituire le cellule che degenerano con altre che vadano a rioccupare la stessa posizione. Non soltanto le cellule non si possono rigenerare, ma la connessione lesa no può essere ricostruita».
Il motivo è presto detto: «il cervello non può permettersi di alterare la propria rete senza che questo implichi un’alterazione del soggetto e della personalità». Una ricerca inutile, quindi? Tutt’altro. «E’ interessante il fatto che i ricercatori, prendendo dei fibroblasti, che producono i connettivi della cute, siano stati in grado di produrre dei neuroni. La ricerca non é detto che debba avere un’utilità immediata, ma quanto scoperto potrà avere dei riscontri oggettivi in futuro. Sarà interessante, ad esempio, capire come le cellule siano state fatte evolvere, e quali siano stati geni implicati. Tutto questo permetterà di analizzare, ad esempio, il perché della neurodegenerazione».
(Paolo Nessi)