Uno degli spettri evocati come cause del riscaldamento globale è l’effetto devastante che deriverebbe dallo scioglimento dei ghiacci eterni, dai relativamente piccoli ghiacciai alpini, a quelli dell’Himalaya, alle sconfinate distese artiche e antartiche. Se infatti tutta o gran parte dell’acqua di mare congelata ai Poli fosse liberata e si riversasse negli oceani, il livello medio di questi ultimi varierebbe drammaticamente: alcuni pensano anche di decine di metri. Città come Miami, Hong Kong e Sidney verrebbero sommerse. Ma le conseguenze sarebbero imprevedibili e di più ampio spettro, in quanto lo stesso comportamento climatico a livello planetario sarebbe modificato.
Il trend della temperatura media terrestre è in crescita da più di un secolo: è perciò necessario cercare di capire verso che tipo di scenario ci stiamo avviando. Per fare questo, i climatologi hanno a disposizione un solo grande “laboratorio”: il nostro stesso pianeta, che conserva i segni più o meno evidenti della sua storia climatica. La ricostruzione storica permette di comprendere se il nostro pianeta abbia già affrontato determinate situazioni e quali effetti avrebbero prodotto sulla biosfera.
Per quanto riguarda l’estensione dei ghiacci ai poli, una valutazione precisa delle variazioni nei millenni non è ancora stata fatta, anche per le difficoltà che presenta una indagine del genere: il ghiaccio infatti si forma e si scioglie senza lasciare traccia di sé. Scienziati dell’Università di Copenaghen hanno però messo a punto un ingegnoso sistema per risolvere le difficoltà e procedere verso valutazioni quantitative accurate.
Lo studio si basa su materiali raccolti lungo le coste della Groenlandia settentrionale, che gli scienziati si aspettano essere l’ultimo luogo in cui sopravvivrà il ghiaccio estivo artico in un mondo sempre più caldo: questo significa poter conoscere anche in che tipo di condizioni sarà l’oceano. 



I risultati sono interessanti e sicuramente sorprendenti, come riferisce il responsabile scientifico del progetto danese, Svend Funder: «I nostri studi mostrano che ci sono state grandi variazioni nella quantità di ghiaccio marino estivo durante gli ultimi 10.000 anni. Durante il cosiddetto Ottimo Climatico dell’Olocene -fra 5.000 e 8.000 anni fa-, quando le temperature erano di poco più calde di quelle di oggi, ci fu una quantità significativamente inferiore di ghiaccio marino, almeno il 50% in meno della quantità registrata nell’estate 2007, l’anno in cui l’estensione ha raggiunto di gran lunga il minimo fra quelle registrate. Le nostre analisi dimostrano che quando il ghiaccio scompare in una regione, si può accumulare in un’altra. Abbiamo trovato questo risultato comparando i nostri dati con osservazioni relative al Canada settentrionale: mentre la quantità di ghiaccio diminuiva in Groenlandia, aumentava in Canada. Questo fenomeno è probabilmente dovuto a cambiamenti nei sistemi dei venti prevalenti».
La chiave per comprendere questi andamenti durante le epoche precedenti risiede nei resti di legno portati dalla corrente, che si possono trovare lungo le coste. Per essere sicuri di studiare coste con resti sufficientemente antichi, Funder e i suoi hanno scandagliato in diverse spedizioni la Terra di Peary, visitata molto raramente dall’uomo e toccata spesso da tempeste di neve anche nei mesi estivi. Si può pensare che i resti di legno abbiano solcato i mari prima di arrivare su una certa costa, «ma -spiega Funder- tali viaggi richiedono diversi anni, e i resti possono non essere in grado di resistere così a lungo». Dobbiamo perciò immaginare che i resti «siano fin dall’inizio inclusi nel ghiaccio e insieme a esso raggiungano le coste nord della Groenlandia. L’aumento di resti perciò indica quanto ghiaccio marino pluriennale fosse nell’oceano prima di allora. Questo è proprio il ghiaccio di cui si teme la scomparsa».



Studiando il legno raccolto in vista della datazione al C14, si è scoperto che i resti di legno hanno avuto origine vicino ai grandi fiumi dell’attuale Nord America, dove domina l’Abete Rosso, e della Siberia, dove invece regna il Larice. Cambiamenti nelle abbondanze sono perciò evidenze di cambiamenti di rotta, alterazioni delle correnti e modifiche delle condizioni di vento nell’Oceano Artico. Datando inoltre l’era di formazione delle dune lungo le coste per più di 500 km si è scoperto che durante il periodo caldo fra 4.000 e 8.000 anni fa c’era più mare libero e meno ghiaccio lungo le coste di quanto non ce ne sia oggi.
Le conclusioni cui conduce lo studio sono alquanto interessanti: «possiamo mostrare che ci sono grandi variazioni naturali della quantità di ghiaccio marino artico», spiega Funder, evidenziando due conseguenze, «la cattiva notizia è che c’è una chiara relazione fra temperatura e quantità di ghiaccio, ergo non ci sono dubbi che aumentando il riscaldamento diminuirà il ghiaccio; la buona notizia però è che anche di fronte a una riduzione di più del 50% dell’attuale, la quantità di ghiaccio marino non raggiungerà un punto di non ritorno. I nostri studi infatti mostrano in via definitiva che i cambiamenti sono massimamente dovuti all’effetto che la temperatura ha sul sistema dei venti dominanti, cosa non sufficientemente tenuta di riguardo quando si prevede l’imminente scomparsa dei ghiacci, come spesso riportato dai media».

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