Sale il bisogno di alberi e legname, in relazione al sempre maggior impiego delle biomasse per produrre energia. L’obiettivo che si è posto l’Unione europea è quello di incrementarne sempre più l’utilizzo. «Si tratta semplicemente di capire come sfruttare i terreni coltivabili. Le tecnologie e le risorse ci sono, e i vantaggi sarebbero decisamente significativi», spiega a ilSussidiario.net Carlo Soave, ordinario di fisiologia vegetale nell’Università degli Studi di Milano. Si tratta, infatti, di una fonte alternativa dalle enormi potenzialità. In un tempo relativamente breve potrebbero essere abbattute le emissioni di Co2. E, superato il periodo di ammortamento dei costi per la realizzazione e la conversione degli impianti che producono, si potrebbe verificare un abbattimento dei costi delle tariffe.



Tutto ciò, non è esente da criticità. «Con biomasse – spiega Soave – si intendono quelle produzioni vegetali che possono essere convertite in biocarburanti, ovvero bioetanolo e biodiesel. I vantaggi sono evidenti. Gas e petrolio, anzitutto, non sono rinnovabili. Inoltre producono un elevato quantitativo di emissioni di Co2 nell’atmosfera. Anche le biomasse emettono Co2; ma la medesima quantità che hanno immagazzinato nel corso della loro vita per crescere. La riduzione, rispetto alle altre fonti, è circa del 60 per cento». Questo ragionamento, tuttavia, dà per assunta una premessa. «Si dà per scontato che l’incremento di Co2 nell’ambiente sia fondamentalmente di natura antropica. Il che è tutto da dimostrare». In sostanza: il vantaggio ambientale c’è, ma non è quantificabile. I benefici sul piano economico, poi, non sono assoluti: «sono relativi al costo del petrolio. Si calcola che diventi conveniente produrre energia con le biomasse nel momento in cui il petrolio supera i 70-80 dollari al barile». Dato che siamo intorno agli 85 e spesso sforiamo i 100, va da sé che il ritorno è oggettivo.  Il vantaggio maggiore, tuttavia, è un altro: «consiste nell’iniziare a svincolarsi dal petrolio e dai paesi produttori dai quali dipendiamo». Un procedimento realistico, anche se non di semplicissima attuazione.



«Un terreno agricolo utilizzato per le biomasse non lo è più per altri scopi. Se usiamo, per esempio, mais per produrre biocombustibili, non possiamo usarlo per fini alimentari». Proviamo a fare due conti. «La direttiva Ue 20-20-20 prevede che, entro il 2020 dovremo addizionare alla benzina almeno un 20 per cento di bio-etanolo. Per l’Italia significa produrne due milioni di tonnellate all’anno. Questo implica l’aver a disposizione 8 milioni di tonnellate di biomassa, dato che il rapporto è di 4 a 1». Bisogna capire di quanto terreno, quindi, avremmo bisogno.  «Se, ad esempio, utilizziamo la canna – se ne producono 40 tonnellate ad ettaro – occorrono 400mila ettari. Gli ettari disponibili, in Italia, per l’agricoltura, sono 13 milioni. Dovremmo utilizzarne un 3-4%. Di per sé non è una percentuale alta. Non sottrarremmo grandi porzioni alle colture».



Gli ostacoli sono fondamentalmente di natura logistica. «Il problema è che non possiamo concentrare tutta la produzione nella stessa zona, perché l’impatto ambientale sarebbe elevatissimo. Dovremmo avere a disposizione piccole aree dislocate sulla Penisola». Una volta a disposizione, «è necessario che tutta la filiera venga predisposta ed entri a regime. Si tratta di creare colture per la produzione di biomassa e impianti per la trasformazione».  In Italia, da questo punto di vista, non siamo messi malissimo. «Siamo, all’incirca, al punto degli altri Paesi europei. Sembra che i governi e le imprese stiano pian piano entrando nell’ottica di produrre energia in questo modo». Qualche dubbio rimane sull’abbattimento dei prezzi per i consumatori: «Il costo del bio-etanolo è competitivo con quello della benzina, certo. Tasse escluse…»

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