Antonio Meucci è a tutti noto come l’inventore del telefono, ma forse non tutti sanno che la prima idea di trasmettere la voce umana gli balenò durante il trattamento con l’elettricità di un paziente che si era a lui rivolto per problemi di artrite. Meucci fece in effetti parte, per un buon numero di anni (mentre viveva a Cuba, prima di trasferirsi a New York), di quella schiera di personaggi a cavallo fra i terapeuti e i ciarlatani che nella prima metà dell’Ottocento, sull’onda delle scoperte di Oersted e Faraday sull’elettromagnetismo, applicarono l’elettricità alla cura del corpo umano, inventando strani apparecchi che promettevano di guarire malanni di ogni genere, dalle artrosi alle nevrastenie, dalle paralisi all’impotenza.
Apparecchi e personaggi ormai quasi del tutto dimenticati, se non fosse per un piccolo gruppo di studiosi e di collezionisti che si occupano di preservare la memoria di un fenomeno, forse più di costume che scientifico, ma che fu comunque piuttosto diffuso e testimonia quanto i nostri compassati antenati fossero disposti ad attribuire a fenomeni fisici non ancora pienamente compresi, come quelli elettrici, virtù quasi magiche.
A cura di questo gruppo di appassionati che ruotano attorno alla associazione Aspi (Archivio storico della psicologia italiana), ai portali milanocittadellescienze e misurando, e grazie alla disponibilità di alcuni collezionisti privati, è stata presentata la scorsa settimana presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca (con il patrocinio del Dipartimento di Psicologia) una mostra intitolata “Elettricità che cura, tra positivismo e Belle Epoque”: in essa si sono potuti toccare con mano una cinquantina di strumenti per la “medicina elettrica” risalenti al periodo fra il 1840 e il 1920 tutti ottimamente conservati, del cui funzionamento si potevano avere ampie spiegazioni tramite opportuni pannelli, illustrazioni e libri d’epoca.
Come ci hanno ricordato l’ingegner Oronzo Mauro, marchigiano trapiantato a Milano e grande esperto e collezionista di strumenti elettrici antichi, e Christian Carletti della Aspi, alcune proprietà magnetiche dei corpi erano note già nell’antichità, ma solo nel corso del XVIII secolo l’elettricità entrò in un nuovo spazio interpretativo. L’Illuminismo vide in questo “fluido” non solo un fenomeno indagabile sperimentalmente, ma anche una “meraviglia” del mondo naturale, capace di sorprendere e divertire: nei salotti dell’aristocrazia europea l’“électricité amusante” divenne uno slogan che preannunciava spettacolari esibizioni a base di scintille, baci elettrici, duelli con spade folgoranti ed elettrizzazione di catene umane.
A partire dal XIX secolo al fascino ludico e ricreativo suscitato dalle scintille venne rapidamente sostituendosi il fascino della tecnologia, incarnazione del potere di una nuova scienza che era ora in grado di dominare la corrente, capace di addomesticarla per rivoluzionare la vita quotidiana. La pila, il telegrafo e la lampadina furono gli esiti più noti di questo cambiamento. Meno noto è che la scoperta dell’induzione elettromagnetica e le ricerche nel campo della fisiologia sperimentale condotte tra Parigi e Berlino portarono, verso la metà del XIX secolo, a una rinascita dell’interesse nei confronti del potere sia diagnostico che terapeutico dell’elettricità. In particolare, gli studi condotti in Francia da Duchenne de Boulogne (verso il 1855) e da Robert Remak in Germania innescarono un nuovo dibattito tra chi applicava la medicina elettrica utilizzando correnti indotte (o faradiche) e chi, dall’altra parte, preferiva le correnti continue o galvaniche.
Il dibattito si protrasse fino a primi decenni del ’900: ebbe come esito da un lato il tentativo di applicare l’elettricità allo studio e alla cura di patologie che spaziavano dalla paralisi al “disordine psichico”; dall’altro il proliferare di una pletora di macchine, congegni e tecnologie mediche che si riversarono sul mercato, adottate sia da saltimbanchi e ciarlatani, sia da professionisti impiegati nei reparti di elettroterapia degli ospedali. Molte di questi apparecchi e metodiche sarebbero cadute presto nell’oblio, altre avrebbero resistito più a lungo.
Ancora in un manuale di elettroterapia del 1923, si poteva leggere: “La materia non è altro, in ultima analisi, che elettricità e ogni manifestazione vitale è trasformazione di energia, cioè di elettricità, e ogni fenomeno vitale è accompagnato da elettricità. Da questo necessariamente risulta che il mezzo più naturale ed energico per poter comunque modificare la vita organica, per esaltarla quando è depressa, per trasformarla quando è deviata, per sopirla quando è eccitata, è rappresentato appunto dall’elettricità”. Potremmo classificare simili affermazioni come semplice propaganda commerciale, ma in esse si coglie anche l’eco della visione positivistica del mondo che si era diffusa a cavallo fra Ottocento e Novecento.
Col passare degli anni l’esaltazione scientista e le speranze di fine Ottocento di capire rapidamente la struttura della materia e i segreti della vita si sarebbero scontrate con la crescente consapevolezza della loro complessità (in questo senso la mostra offre suggestioni e spunti di riflessioni interessanti, che vanno al di là del semplice collezionismo e della curiosità scientifica). L’elettricità avrebbe quindi rapidamente perso credito come metodo diretto di cura (anche se mezzi di semi-tortura quali l’elettroshock, sarebbero rimasti in uso fino a oltre la metà del Novecento), nel mentre essa acquistava gradualmente importanza quale substrato e fonte di energia di quella infinita serie di apparecchiature diagnostiche ed elettromedicali che sono la spina dorsale della medicina moderna.
È un peccato che questa mostra-evento sia durata solo un giorno (gli organizzatori sostengono che è l’unico modo di contenere i costi), e che quindi non sia stata facilmente fruibile da un più vasto pubblico. Ci sarà comunque una seconda possibilità a fine marzo, in occasione di Scienza&Natura Expo (Parco Esposizioni di Novegro, MI) dove l’esposizione, con tutti i suoi bizzarri strumenti, verrà ripresentata.