Si celebra domani la Giornata Mondiale dell’Alimentazione, promossa dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Fao) allo scopo di far crescere la consapevolezza e le conoscenza circa le misure necessarie per porre fine alla fame nel mondo. Tra le molte iniziative in programma, vale la pena segnalare quella che si svolgerà a Milano: la prima edizione del Salone della Ricerca, Innovazione e Sicurezza Alimentare, che ospiterà il convegno: “Le nuove frontiere della sicurezza alimentare. Focus sulla filiera produttiva”. L’iniziativa nasce per rispondere alle esigenze di un mercato sempre più attento al tema dell’alimentazione: le aziende e le istituzioni cercano occasioni per far conoscere il proprio impegno; i cittadini-consumatori chiedono nuove modalità per essere sempre più informati sulla sicurezza dei cibi che arrivano in tavola. Ne abbiamo parlato con Chiara Tonelli, Ordinario di Genetica all’Università degli Studi di Milano, che interverrà nella prima sessione del convegno.
Parliamo di quell’aspetto della sicurezza alimentare che cade sotto l’ambito di quella che in inglese si definisce security. Cosa si intende per security alimentare?
Si tratta del diritto umano fondamentale per cui le persone di questo Pianeta possano avere a disposizione su base quotidiana un numero adeguato di calorie, quindi un’alimentazione sufficiente per permettere una qualità di vita dignitosa. Tale alimentazione deve avere quattro requisiti: oltre che sufficiente deve essere nutriente, sicura, cioè non contaminata, e sostenibile, quindi facilmente accessibile sia dal punto di vista economico che sociale che ambientale. Questa è la sfida che abbiamo davanti. Una sfida particolarmente sentita, perché la popolazione aumenta e dovremmo aumentare la produzione di alimenti ma non possiamo aumentare le superfici coltivabili.
Allora, come si può fare?
Possiamo anzitutto cercare di ridurre le perdite dovute a vari stress ambientali (siccità, salinità dei suoli, inondazioni, malattie delle piante, ecc), per i quali in media il 50% della produzione ogni anno viene persa. Riuscire a rendere le piante più robuste, e questo è prioritariamente il compito della scienza, vuol dire recuperare già una parte delle perdite e aumentare la produttività. Una seconda cosa fattibile è diminuire l’input chimico: quindi utilizzare meno fertilizzanti e meno agrofarmaci, anche se devo dire che gli agrofarmaci sviluppati recentemente sono più sostenibili. Poi dobbiamo migliorare gli alimenti dal punto di vista nutrizionale: c’è una malnutrizione dovuta non solo a mancanza di calorie ma a mancanza, ad esempio, di microelementi come ferro, magnesio, vitamine; dobbiamo far in modo che, soprattutto per le popolazioni che non hanno possibilità di avere una dieta bilanciata, migliorino i cosiddetti staple food, cioè gli alimenti assunti su base giornaliera e che non hanno tutta una serie di elementi fondamentali per favorire buone condizioni di salute.
Lei ha accennato al ruolo della scienza: come si gioca, in pratica?
Io sono una genetista e posso quindi parlare del miglioramento genetico. Un miglioramento che può basarsi su molti mezzi disponibili: si possono utilizzare le tecniche dell’incrocio, come si è sempre fatto, magari assistito attraverso un’analisi molecolare; oppure si può ricorrere alle tecniche del DNA ricombinante: con queste posso inserire un determinato gene in una pianta al fine di migliorarla; e non vedo per quale motivo questi, che vengono definiti OGM, debbano essere così demonizzati. Se individuo il gene che dà resistenza a una malattia, ad esempio in una varietà di pomodoro, non vedo perché non posso trasferire tale gene in altre varietà rendendole anch’esse resistenti, mantenendo intatte le caratteristiche varietali.
C’è una situazione paradossale: tecniche che potrebbero contribuire ad aumentare la sicurezza, vengono considerate una minaccia.
Purtroppo è così; ma si tratta di una questione puramente ideologica: non si capisce perché, per stare all’esempio precedente, se io inserisco questo stesso gene tramite incrocio, va bene e posso andare in campo domani mattina; se invece lo faccio tramite DNA ricombinante questo può diventare pericoloso per la salute e per l’ambiente. Non dico che non bisogna porre attenzione; dico solo che bisogna esaminare e valutare caso per caso, senza emanare sentenze generiche e assolute. Quelle genetiche sono metodologie: il loro effetto dipende da come le si utilizza.
C’è un’altra accezione dell’espressione “sicurezza alimentare” ed è quella che, sempre in inglese, si denomina, cioè sicurezza circa l’integrità e la qualità degli alimenti. Cosa possiamo dire in proposito?
Anzitutto che ci devono essere delle normative, delle regole precise perché la gente sia sicura di non essere truffata. C’è ad esempio tutto un nuovo campo che si sta aprendo, quello dei cosiddetti alimenti funzionali: allora, un’industria produttrice non può scrivere sulla confezione “questo fa bene al cuore” o “ti protegge dai tumori” se ciò non è stato scientificamente dimostrato e testato. Da qui l’importanza di un ente , come l’Efsa (L’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare che ha sede a Parma), che analizza tutto ciò e può attestare la validità di certe affermazioni. Poi c’è tutto l’ambito dei controlli e delle analisi, come quelle delle varie Asl, che verificano se ciò che mangiamo è integro, esente da tossine e da qualsiasi agente nocivo. Per quanto ne so, direi che possiamo ritenerci sufficientemente sicuri che ciò che troviamo nei negozi e supermercati è sicuro; non vedo particolari motivi di allarme.
Ci sono nuove tecnologie, nate in altri settori ma che possono avere applicazioni anche in campo agroalimentare, pur tra perplessità e qualche timore, come le nanotecnologia. Cosa ne pensa?
Ci sono applicazioni interessanti delle nanotecnologie, che possono incidere proprio sul tema della sicurezza alimentare. Penso ad esempio ad alcune innovazioni nel packaging, dove ci sono pellicole per alimenti trattate con procedimenti nanotecnologici tali da metterle in grado di cambiare colore se un alimento è contaminato o se sta scadendo. Poi ci sono delle applicazioni futuribili, come quelle che prevedono di aggiungere nanoelementi dolcificanti in prodotti utili per la salute, ma che non verrebbero assunti per il loro sapore sgradevole. E altre ancora.
Come è il rapporto tra alimentazione e ricerca scientifica; sta cambiando qualcosa?
È un rapporto sempre più intenso. Si è capito che c’è un nesso forte tra alimentazione e salute e che un certo tipo di alimentazione e di abitudini alimentari può risultare determinante per prevenire alcune malattie croniche o certi tipi di tumori. Quindi industrie alimenti interessate allo sviluppo di nuovi prodotti in questa direzione della prevenzione: basti pensare al Danacol per quanto riguarda il controllo del colesterolo. Poi c’è tutto il capitolo della nutrigenomica, cioè lo studio di come gli alimenti possono influire sull’espressione dei nostri geni: è la possibilità non solo di capire tutto il grosso capitolo delle allergie e delle intolleranze alimentari, ma di come il mangiare certi cibi che contengono certe molecole può aumentare o diminuire il rischio di contrarre certe malattie.
L’Expo 2015 potrà dare un impulso in questo senso?
Me lo auguro. Certo, sarebbe bello se l’Expo investisse finanziando in ricerche del genere, sarebbe un bel lascito di una manifestazione come questa: un lascito a livello della conoscenza, che come tale resta per sempre e diventa patrimonio di tutti.