E’ ampiamente risaputo che il posto in cui viviamo, la nostra casa, la Terra, sia un pianeta. Non solo. Sappiamo benissimo che fa parte di una sistema planetario, il Sistema Solare, formato da altri sette pianeti e da una stella centrale, il Sole. Potrebbe quindi sembrare che ormai tutto sia già stato spiegato sui pianeti e che questo sia un filone di ricerca “sorpassato”. Invece è proprio il contrario, soprattutto a partire dalla scoperta dei pianeti extrasolari, cioè orbitanti attorno ad altre stelle.



Ad oggi sono noti circa 800 exo-pianeti e ci si aspetta di rilevarne molti altri, grazie alla rapida evoluzione scientifica e tecnologica in questo campo. Quello che non sappiamo è però come si sia formato un sistema planetario come il nostro e quali siano le condizioni che debba avere una giovane stella per potersi circondare di pianeti, dei quali uno possa addirittura ospitare la vita. Queste sono alcune delle domande che rendono la formazione planetaria uno degli argomenti più in voga dell’astrofisica di questi ultimi anni. E, a mio parere, anche uno dei più entusiasmanti.



Cosa si può fare, quindi, per studiare le fasi che nel passato hanno portato il sistema solare alla conformazione attuale, senza avere a disposizione una macchina del tempo? L’unico modo è quello di scovare in particolari regioni dell’universo, chiamate zone di formazione stellare, alcuni sistemi planetari molto più giovani del nostro e vedere cosa sta succedendo al loro interno. A noi – due astrofisici, un ottico e una studentessa di fisica – è capitato di studiare proprio uno di questi oggetti utilizzando sei immagini provenienti dal telescopio spaziale Hubble. L’abbiamo scovato nella nebulosa di Orione ed è stato abbastanza semplice vederlo, dato che si tratta di un vero e proprio gigante: è grande circa dieci volte il sistema solare!



In gergo astronomico è chiamato d114-426 ed è un disco protoplanetario. Le giovani stelle sono infatti circondate da dischi composti da gas, per il 99% della loro massa, e polvere per il restante 1%, e si pensa che questi siano proprio gli ambienti che diano vita ai pianeti mediante il fenomeno dell’aggregazione della polvere. In particolare, il nostro è un disco  “in silhouette” rispetto all’emissione diffusa della nebulosa che lo circonda.

Cosa significa? La nebulosa di Orione è molto luminosa: è una specie di enorme nuvola di gas e polvere che riflette ovunque la luce di alcune stelle giganti presenti al suo interno. 

Quindi quello che si vede sulle immagini è uno sfondo molto brillante con una macchia nera allungata, una sorta di “striscia”. Quello è il nostro disco.

Perché una striscia e perché nera? Perché questo disco lo si vede di taglio e quindi non è possibile identificare una sagoma circolare. Appare inoltre nero perché la presenza della polvere al suo interno, anche se in una percentuale di massa molto bassa rispetto al gas, lo rendo opaco (utilizzo l’aggettivo “opaco” come contrario di “trasparente”) alla radiazione proveniente dallo sfondo. Possiamo fare il paragone con una finestra dalla quale entra la luce del Sole: se vi dipingiamo sopra tanti puntini, la luce che inizialmente la attraversava verrà attenuata.

Ma qui viene il bello! Non solo il disco risulta opaco alla radiazione, ma i suoi bordi risultano essere più o meno opachi, se osservati in immagini realizzate con filtri diversi che lasciano passare solo una lunghezza d’onda alla volta. Ciò vuol dire che la polvere è più o meno opaca a seconda della lunghezza d’onda della luce incidente su di essa. Questo dipende essenzialmente da tre caratteristiche dei grani di polvere: la loro forma, la loro composizione chimica e la loro dimensione. Tutto ciò è molto interessante dal punto di vista scientifico perché, studiando essenzialmente quanta luce riesce a passare attraverso i bordi del disco alle varie lunghezze d’onda, si possono ricavare informazioni sulla struttura della polvere. In particolare, per quanto riguarda la forma e la composizione dei grani, solitamente ci si affida ai risultati ottenuti da modelli teorici molto avanzati. Ciò che si può ottenere dai dati è quindi la dimensione delle particelle di polvere nel disco. Polvere che si trova a miliardi di chilometri da noi!

Noi quindi avevamo tutto: sei immagini, prese a sei diverse lunghezze d’onda e, per di più, con il migliore telescopio attualmente in orbita. Tuttavia, ciò che ha reso fruttuosa la nostra analisi è stata l’idea di far dialogare due ambiti che solitamente hanno pochi punti di intersezione: l’astrofisica e l’ottica fisica.

Un ottico infatti, in un laboratorio in cui gli apparati sperimentali hanno dimensioni limitate e si trovano ad una distanza minima dallo scienziato, segue esattamente la procedura necessaria per studiare il nostro disco, che invece è incredibilmente grande e posto a una distanza inimmaginabile dalla Terra; studiando come si trasforma un fascio di luce dopo essere passato attraverso un bersaglio, l’ottico trae delle conclusioni sulla composizione del bersaglio stesso. Esistono, ad esempio, esperimenti di ottica, chiamati di “particle sizing”, che hanno lo scopo di misurare le dimensioni delle particelle presenti in atmosfera per studiare il livello di inquinamento dell’aria.

Terminata l’analisi dei dati, abbiamo quindi ottenuto la dimensione dei grani di polvere: essi risultavano essere grandi qualche millesimo di millimetro, leggermente più grandi dei grani di polvere presenti nel “mezzo interstellare”(quella polvere che insieme a enormi quantità di gas si estende ovunque tra una stella e l’altra). Quindi il fenomeno dell’aggregazione sembrava proprio essere in atto!  

Ma il risultato più rilevante è stato trovare che i grani più grandi si disponevano verso la parte centrale del disco, mentre quelli più piccoli stavano verso l’esterno. È stato molto rincuorante, poiché questo andamento è proprio quello che viene previsto teoricamente quando si ipotizza che i pianeti si formino mediante l’ aggregazione di queste particelle. La nostra è stata, inoltre, una delle prime evidenze osservative in grado di mostrare  che effettivamente i granelli si dispongono secondo un gradiente di dimensione, il che ha generato in noi un certo stupore.

Sappiamo proprio poco di come si formino i pianeti e ancor meno di come si sia formato il nostro; ma un risultato come questo ci dice che siamo sulla strada giusta!