Nel 2010 lo scienziato giapponese Shinya Yamanaka aveva ricevuto il Premio Balzan; l’anno scorso ha vinto il Polar Prize per la Medicina. Ora, all’età di 50 anni, arriva anche il Nobel per la Fisiologia e la Medicina, condiviso col britannico John B. Gurdon, per aver scoperto che le cellule staminali possono essere riprogrammate diventando pluripotenti (sono le cosiddette Ips, Induced Pluripotent Stem Cells): «Le loro scoperte – si legge nella motivazione del premio – hanno rivoluzionato la nostra comprensione del modo in cui le cellule e gli organismi si sviluppano». Ne parliamo con Assuntina Morresi, dell’Università di Perugia, che ha fin dall’inizio seguito e apprezzato le ricerche di Yamanaka.
Un Nobel inaspettato?
No, al contrario, di Nobel se ne è parlato fin da subito, da quando cinque anni fa Ian Wilmut, lo scienziato che ha fatto nascere la pecora Dolly, ha annunciato di abbandonare le ricerche sulla clonazione mediante trasferimento nucleare, per dedicarsi alla nuova strada trovata dallo scienziato giapponese Shinya Yamanaka. Wilmut anticipò la notizia dell’imminente pubblicazione di un articolo scientifico di straordinaria importanza, che avrebbe rivoluzionato il settore della medicina rigenerativa, e riconobbe onestamente che la strada da lui intrapresa fino ad allora – la clonazione mediante trasferimento nucleare – non portava da nessuna parte.
Solo cinque anni fa, la scoperta, e già il Nobel. Ricordiamo di che si tratta.
Fin dagli anni ’60 era stato dimostrato che le cellule erano dotate di una certa plasticità. John Gurdon, che ha condiviso ieri il Nobel con Yamanaka, aveva studiato la riprogrammazione cellulare mediante trasferimento nucleare, clonando una rana con la stessa tecnica con cui, trent’anni dopo, è stata fatta nascere la pecora Dolly. Come ha ricordato l’Accademia delle Scienza di Stoccolma, Gurdon dimostrò che “la specializzazione delle cellule è reversibile”.
In quel caso, si tratta di togliere il nucleo ad una cellula uovo – gamete femminile, negli esseri umani con 23 cromosomi – e sostituirlo con il nucleo di una cellula matura – per esempio della pelle, negli esseri umani con 46 cromosomi. L’organismo così formato, sottoposto a stimolazioni chimiche o elettriche, inizia a comportarsi come un embrione, dividendosi e sviluppandosi. Questa tecnica ha funzionato molto poco nei mammiferi (pochi gli animali clonati, e spesso con tanti problemi) e mai per gli umani: nonostante tanti annunci sensazionali, nessuno è mai riuscito a ricavare una sola cellula staminale embrionale umana con questa procedura. Lo sviluppo degli embrioni umani clonati si arrestava prima di poterne ricavare le preziose staminali. Yamanaka ha ripreso l’idea della riprogrammabilità cellulare e ha trovato un metodo alternativo: una cellula adulta già specializzata (per esempio della cute), sottoposta ad una manipolazione genetica abbastanza semplice, può tornare indietro nel tempo, e perdere le sue caratteristiche “mature” per assumerne di molto simili a quelle embrionali: è cioè di nuovo in grado di differenziarsi in ogni tipo di cellule e tessuti del nostro corpo (ossa, sistema nervoso, sangue, etc.). Queste cellule di nuovo “bambine” sono le iPS, cellule staminali pluripotenti indotte, che hanno rivoluzionato i laboratori del mondo in questo settore, e hanno condotto il giovane giapponese (ha cinquanta anni) al Nobel.
Ma a che servirebbero le iPS?
Sono la grande promessa della medicina rigenerativa: l’idea di “sostituire” le cellule malate con cellule sane, in tante malattie finora inguaribili (dal diabete a tante malattie rare, e a forme degenerative come l’Alzheimer). Le cellule sane si potrebbero ricavare dallo stesso corpo del malato: anche cellule della propria pelle, per esempio, potrebbero essere trasformate in iPS, e poi “riprogrammate” per diventare cellule di un tessuto diverso (magari del sistema nervoso), cellule sane con cui sostituire quelle malate. Per correttezza nei confronti di tanti pazienti, è bene ricordare che tutte queste cure non sono certo dietro l’angolo, e che siamo su una strada ancora lunga da percorrere. Però la direzione sembra quella giusta, adesso.
Il vantaggio?
Innanzitutto, in questo modo ogni persona può ottenere dal proprio corpo cellule iPS con il proprio patrimonio genetico, in grande quantità. Ci sono ancora problemi sperimentali a riguardo che però gli esperti del settore segnalano in via di risoluzione.
Ma soprattutto queste cellule iPS si ottengono senza dover distruggere embrioni, come invece sarebbe avvenuto nel caso in cui la “clonazione terapeutica” avesse funzionato negli esseri umani: in ovociti di donne, si sarebbe sostituito il nucleo di cellule adulte della persona malata, e gli embrioni formati, cloni del paziente, sarebbero stati distrutti dopo alcuni giorni per ricavarne staminali embrionali da cui ricavare le cellule “sane” da sostituire a quelle “malate”.
Per arrivare a questa scoperta Yamanaka ha usato informazioni ricavate dalla ricerca sugli embrioni?
Embrioni si, ma di topo: l’esperimento con cui Yamanaka ha dimostrato l’esistenza delle iPS e le loro caratteristiche è stato condotto interamente sui topi. Così come John Gurdon ha clonato rane. La sperimentazione animale, che sempre deve precedere quella umana, ha dato risultati straordinari: non c’era bisogno di distruggere embrioni umani in quantità che non conosceremo mai, ma sicuramente in dimensioni massicce, per arrivare a questi risultati.
Però dalla ricerca sugli embrioni umani sono arrivate anche informazioni importanti…
Anche gli esperimenti disumani nel lager nazisti davano risultati interessanti. Se si potessero fare esperimenti senza vincoli di sorta sugli esseri umani, ne ricaveremmo sicuramente informazioni importanti. Anni fa, sul Journal of Medical Ethics, per esempio, si ipotizzò la possibilità di utilizzare persone in stato vegetativo per esperimenti sugli xenotrapianti (trapianti di organi da animali a umani), basandosi sull’idea che quelle persone erano vive abbastanza da reagire clinicamente agli interventi, ma potevano essere oggetto di ricerche di quel tipo perché tanto non si sarebbero più svegliate. Se seguissimo le indicazioni di questo articolo, scopriremmo sicuramente cose molto interessanti e utili, ma è evidente l’orrore della cosa in sé. La regolamentazione delle sperimentazioni umane, così come l’esistenza stessa del consenso informato, nascono proprio come reazione all’orrore degli esperimenti dei campi nazisti, a prescindere dai risultati che ne sono venuti. Le persone non possono mai essere usate come mezzo, come cosa, in nessun momento della propria vita, neppure quando degli esseri umani non hanno ancora le fattezze, come accade per le persone non nate, allo stadio embrionale, e in nome di nessun progresso, scientifico o sociale, o chissà cos’altro.
E adesso cosa potrebbe succedere?
Molto è già successo in questi cinque anni: dall’annuncio di Yamanaka la ricerca scientifica nei laboratori di tutto il mondo ha cambiato direzione, abbandonando le tecniche di “clonazione terapeutica”. Adesso questa strada sarà seguita con ancora maggiore decisione e consapevolezza da parte della comunità scientifica.
Eppure in questi anni non sono mai mancate le polemiche sulla distruzione di embrioni umani per la ricerca.
Perché?
Perché se nella clonazione terapeutica sono stati investiti, da parte di nazione ma anche di privati, fiumi di soldi, è difficile poi dire: scusate, abbiamo sbagliato, la strada giusta era un’altra, dobbiamo ricominciare. Ma soprattutto perché l’ideologia è dura a morire: la ricerca che distrugge gli embrioni non è “solo” una tecnica più o meno sofisticata di manipolazione cellulare. È l’affermazione del fatto che se qualcosa è tecnicamente possibile, deve essere anche lecita. Ed è l’espressione massima della possibilità di dominare la vita umana, fino a poterla creare, quel “playing God”, giocare ad essere Dio, che purtroppo avvelena un certo tipo di ricerca sedicente scientifica, ma che di scienza ha ben poco. Speriamo che questo Nobel serva a far riflettere.