Sarà il primo scienziato a ricevere il Premio Internazionale Medaglia d’Oro al Merito della Cultura Cattolica, che gli verrà consegnato venerdì 16 novembre presso il Museo Civico di Bassano del Grappa (VI). È Ugo Amaldi, uno dei fisici italiani più noti anche a livello internazionale: professore di Fisica prima all’università di Firenze e poi a Milano, dal 1973 è stato Senior Scientist al Cern di Ginevra. Nel 1992 ha dato vita alla Fondazione TERA, per l’impiego delle particelle pesanti (gli adroni) in una nuova terapia per la cura dei tumori radioresistenti. Il Premio, istituito nel 1983 dalla Scuola di Cultura Cattolica nata nel solco dello spirito apostolico di don Didimo Mantiero, è stato assegnato a personalità quali, tra gli altri: Augusto del Noce, don Divo Barsotti, don Luigi Giussani, Eugenio Corti, Riccardo Muti, Krzystof Zanussi e i cardinali Biffi, Scola, Ruini, Caffarra e Ratzinger.
Nella motivazione del Premio 2012 si parla di Amaldi come «uomo di profonda fede», animato da un profondo «amore per la scienza, per la verità e per l’uomo… La sua competenza, il suo rigore rispetto a un concetto di ragione “ampio” e mai riduttivo, la sua straordinaria capacità di rendere comprensibili anche i problemi più intricati della fisica contemporanea fanno di lui uno dei testimoni più eloquenti, anche se discreti, di quanto la cultura cattolica sia oggi viva e vitale». Ilsussidiario.net l’ha incontrato.



Iniziamo proprio da una dalle parole che identifica il Premio: “cultura”. La scienza stenta ancora ad essere considerata a pieno titolo come parte della cultura: perché invece secondo lei fare scienza significa fare cultura?
La cultura è tutto quello che lo spirito dell’uomo riesce ad elaborare nel suo rapporto col mondo e con gli altri; la scienza non fa che svolgere una elaborazione raffinata del rapporto con la natura. Purtroppo, nonostante il fatto che le nostre società siano basate sul progresso scientifico e tecnologico, il concetto che la scienza sia cultura è rimasto confinato nell’ambito degli esperti. Non credo peraltro che riusciremo facilmente a modificare la visione comune in proposito; anche perché non mi pare che gli altri operatori culturali abbiano molto interesse a che questo accada: si sentono già spiazzati dall’imponente avanzamento della scienza e non credo che aiuteranno mai la diffusione dell’idea che la cultura è molto di più di quello che loro fanno.



Le condizioni in cui si fa scienza oggi forse non facilitano l’affermarsi di una prospettiva più ampia: specializzazione estrema, parcellizzazione della ricerca, possono far perdere di vista la visione d’insieme e incrementare una concezione riduttiva e chiusa di scienza. Come la vive lei?
C’è del vero in questa sua affermazione. A me piace ricordare quanto ha detto diversi anni fa il sociologo americano Paul Baran parlando all’American Association for the Advancement of Science (AAAS), quando ha distinto tra lavoratori dell’intelletto e intellettuali: oggi c’è un gran numero di persone del primo tipo e molto pochi del secondo. Allora questa battaglia per l’integrazione della cultura scientifica nella cultura tout court va combattuta sia verso l’esterno, come dicevo, ma anche verso il nostro interno, per trasformare un numero maggiore possibile di lavoratori dell’intelletto in veri intellettuali.



Prima di ritirare il Premio, venerdì pomeriggio, lei terrà una conferenza agli studenti dal titolo “La fisica è bella e utile”: cosa significa e che tipo di esperienza umana è quella della ricerca e della scoperta scientifica?
Lo scienziato gode dei frutti della ricerca in due modi: quasi sempre comprendendo la visione del modo naturale attraverso i lavori degli altri, attraverso le acquisizioni di tutta la comunità scientifica; questo per lo scienziato è un godimento intellettuale così come lo è per l’appassionato di musica sentirla suonare. Poi c’è un secondo modo, più difficile da ottenere, che è dato dall’avvicinarsi a un problema scientifico, magari complicato, e trovare una soluzione o scoprire un nuovo fenomeno: è quella che normalmente si chiama “scoperta”. Questa è come “fare la musica” e non solo ascoltarla; e il gusto è ancora maggiore. E si arriva, verso la fine di una carriera, come capita a me, a guardare indietro e accorgersi che si è dato qualche, seppur piccolo, contribuito: piccolo, perché la scienza avanza sì con le grandi scoperte ma per lo più procede per piccoli passi compiuti in moltissimi laboratori da moltissimi scienziati.

Quanto incide nel lavoro scientifico la, inevitabile, visione del mondo dello scienziato?

Mi riferisco direttamente alla mia esperienza. Io sono uno scienziato credente: come questo influenza la mia ricerca. Per quanto riguarda l’atteggiamento, un conto è vedere ciò che si fa nel quadro di una realizzazione puramente umana e ben diverso e ancor più appagante vederlo all’interno di un cammino, seppur lento e faticoso, nella direzione che ci è stata data da Dio di comprensione sempre più profonda dell’universo.
Per quanto riguarda l’attività scientifica quotidiana anche uno scienziato credente, come ogni scienziato, deve essere un “agnostico metodologico”: insomma, l’essere credente non deve influenzare il suo modo di procedere, di operare nel suo laboratorio o davanti al suo computer. 

Resta il fatto che per la maggior parte della gente la concezione religiosa e la scienza sono due mondi inconciliabili, in alternativa: o è scienza o è fede. Lei come la vive? 
È vero che per molti scienziati, anche di grande valore, c’è questa alternativa secca. Io però non penso affatto che sia così. Penso che si possa integrare la razionalità scientifica con la fede che è poi espressione di quella che io chiamo la ragionevolezza sapienziale e trova le sue radici nei libri sacri, nell’esperienza di vita dei santi, nella rivelazione. Sono due aspetto diversi del nostro stesso intelletto, che si coniugano con la ragione filosofica portandoci a guardare il mondo in modo unitario. In tal modo si può costruire una visione della realtà tale che il problema scienza-fede non si pone. 

Quindi non è vero, come ancora alcuni sostengono, che la fede, e in particolare la fede cattolica, rappresenta un vincolo per il ricercatore, pone degli ostacoli alla conoscenza… 
Non si tratta di ostacoli. Piuttosto, se uno accetta la visione di cui ho parlato, si deve arrivare anche a rivedere o meglio ripensare alcune delle verità, del patrimonio dottrinale della Chiesa. Penso, ad esempio, a concetti come quello di anima, che va ripensata nel quadro delle neuroscienze moderne, ottenendo una forte chiarificazione della distinzione tra spirito e anima. C’è un grande lavoro da fare in tal senso, insieme scienziati e teologi. Come c’è un “naturalismo scientifico”, che va per la maggiore tra gli scienziati ed è compatibile con una visione puramente immanentista e chiusa alla trascendenza; così occorre sviluppare anche all’interno della Chiesa una visione che chiamerei “naturalismo duale”, ancorato ai risultati della scienza e compatibile con una visione religiosa del mondo, che vede nella natura il manifestarsi dei meccanismi che via via la scienza spiega e insieme la presenza di Dio che la sostiene nell’essere. 

(a cura di Mario Gargantini)