Cinquant’anni fa, nel 1962, usciva a Chicago per i tipi della locale Università The Structure of Scientific Revolutions, di Thomas Samuel Kuhn (1922-1996), uno storico della scienza fin lì completamente ignoto al grande pubblico che con quest’opera era destinato a trasformarsi in uno dei pensatori più influenti del nostro tempo.



Il successo del libro di Kuhn fu dovuto in parte a ragioni da “addetti ai lavori”. Esso infatti rappresentò l’espressione più compiuta della marea montante del relativismo epistemologico, che nel giro di pochi anni era destinato a soppiantare il celeberrimo falsificazionismo popperiano come corrente leader nell’ambito della filosofia della scienza a livello mondiale. Inoltre le tesi di Kuhn erano congegnate in modo tale da apparire come il logico svolgimento dei germi di antirealismo e relativismo già presenti in nuce nel pensiero dello stesso Popper, che quindi si ritrovò disarmato di fronte ad esse.



Ma c’erano anche altre ragioni, più profonde, che fecero sì che le Rivoluzioni “sfondassero” anche tra il grande pubblico, diventando un vero e proprio best-seller. Anzitutto Kuhn, grazie alla sua formazione di storico, seppe dare una descrizione dell’attività degli scienziati molto più vivace e, almeno in parte, più realistica delle versioni “addomesticate”, quando non addirittura inventate di sana pianta (le cosiddette “ricostruzioni razionali”), tipiche dei neopositivisti del Circolo di Vienna nonché dello stesso Popper. Inoltre egli seppe cogliere magistralmente lo “spirito del tempo”, dando al pubblico una lettura della scienza in chiave essenzialmente sociologica e psicologica, come era di moda in quegli anni, in cui si stava preparando la grande “critica del potere”, in tutte le sue forme, che esploderà poi nel Sessantotto. Ma soprattutto Kuhn seppe dotare la sua teoria di un linguaggio di successo (il segreto di ogni vero best-seller, come qualunque scrittore sa perfettamente), tanto che termini come “rivoluzione scientifica”, “paradigma”, “cambio di paradigma”, “incommensurabilità”, “relatività degli schemi concettuali” e simili sono di fatto ormai entrati nel linguaggio quotidiano, anche di quelli che Kuhn non l’hanno mai nemmeno sentito nominare.



Va tuttavia notato che se da un lato l’opera di Kuhn contribuì indubbiamente a mettere in luce alcune problematiche reali relative alla scienza e al suo contesto sociale, le tesi che fecero davvero (e fanno tuttora) la sua fortuna sono proprio quelle più discutibili, in cui egli ha forzato i fatti ben al di là della loro reale portata. Alla base di tutto c’è l’idea di ragione tipica di Kuhn (e, a ben vedere, di tutta la modernità), per cui essa consiste essenzialmente non nel rapporto con la realtà, bensì nella conformità a determinate regole, nel suo caso quelle fissate appunto dal “paradigma” dominante in un certo momento storico. 

Un paradigma per Kuhn è una sorta di “visione del mondo” desunta da una teoria di grande successo e grande generalità (come quelle di Newton o di Einstein in fisica o quella di Darwin in biologia) che ha il compito di guidare la ricerca nei periodi di “scienza normale”, in cui non si affrontano problemi veramente fondamentali, capaci di mettere in discussione le basi stesse del paradigma. Quando ciò accade, siamo in presenza di una rivoluzione scientifica, che porta al superamento del vecchio paradigma e alla nascita di uno nuovo. Tale descrizione appare nell’insieme abbastanza convincente e realistica, e in certa misura lo è davvero, ma il problema è che per Kuhn il paradigma non si limita a fissare i concetti di fondo e il modo standard di impostare la ricerca, ma stabilisce anche i criteri in base ai quali giudicare il valore di una teoria e addirittura gli stessi dati sperimentali: ne segue che non è possibile giustificare razionalmente proprio il momento più importante dell’attività scientifica, cioè il passaggio da un paradigma all’altro.

Infatti Kuhn nega che nella scienza si dia un vero progresso, poiché teorie appartenenti a paradigmi diversi sono fra loro incommensurabili, cioè non si può mai dire che una sia superiore all’altra, ma solo che sono diverse, arrivando addirittura a sostenere, sfiorando l’idealismo, che i seguaci di paradigmi diversi vivono letteralmente in mondi diversi. Naturalmente tutto ciò è smentito dall’esperienza e dalla storia della scienza reale; ma c’è di peggio. Abbiamo detto infatti che per Kuhn la razionalità consiste nel seguire le regole codificate nel paradigma: ma poiché il paradigma stesso non si afferma in base a motivazioni razionali, bensì sociologiche e psicologiche, ne segue che in realtà in Kuhn tutta la ragione (e non solo quella della fase “rivoluzionaria”) viene ultimamente ridotta ad un mero fenomeno sociale e psicologico.

Al proposito è molto significativo un episodio poco noto. Nel 1965, durante il famoso congresso tenutosi al Bedford College di Londra, in cui avvenne la “resa dei conti” tra popperiani e kuhniani, conclusosi con la vittoria dei secondi, una ricercatrice inglese, Margaret Masterman (1910-1986), fece un’approfondita analisi critica del libro di Kuhn, avanzando diversi suggerimenti che egli fece in gran parte propri: l’unico che non accettò fu proprio quello relativo a un’idea più ampia e flessibile di ragione, analogica e aperta alla realtà anziché meramente logica e autoreferenziale. Ne nacque il Poscritto 1969, che da allora viene sempre pubblicato in appendice alle Rivoluzioni, ma che non ebbe praticamente nessun impatto, perché conservava gli stessi problemi del testo originario senza averne più la carica provocatoria; tanto che lo stesso Kuhn un po’ alla volta finì col perdere interesse per le questioni epistemologiche e tornò ad occuparsi a tempo pieno di storia della scienza.

Ma, nel bene e nel male, è rimasta con noi la sua opera. Che anzi da allora, a dispetto delle molte (e spesso giustificate) critiche che pure ha subito, ha aumentato sempre più la sua influenza, ben oltre l’originario ambito epistemologico, fino a divenire il punto di riferimento dell’odierno relativismo culturale. D’ora in poi quando sentirete parlare di “incommensurabilità delle culture” o di “relatività dei valori agli schemi concettuali” saprete da dove vengono originariamente queste idee. E saprete anche quale idea di ragione sta alla loro base: un’idea di ragione che, se presa sul serio, finisce per distruggere la ragione stessa e con essa ogni possibilità di un autentico dialogo. Che invece, per fortuna, accade ugualmente, ogni volta che degli esseri umani usano la ragione per imparare insieme dalla realtà anziché per conformarsi alle regole fissate dagli intellettuali di turno.