C’è una questione paradossale nella cultura contemporanea: da una parte, l’uomo d’oggi ha una grossissima dipendenza tecnologica; d’altra crede che la tecnologia sia antiumana, una realtà dalla quale bisogna difendersi. Secondo José M. Galvan, vice direttore del Dipartimento di Teologia Morale della Pontificia Università della Santa Croce, una strada per superare il paradosso è quella della tecnoetica (TE), che lo stesso Galvan sta contribuendo a sviluppare.
Con tecno etica non va ridotta a quella che abitualmente si chiama deontologia professionale dell’ingegnere; neppure va identificata con l’etica della società tecnologica, che include aspetti non tecnici dell’agire umano. «La tecno etica – dice Galvan – è un sistema di conoscenze che permette di evidenziare un sistema di riferimento etico che dia ragione della dimensione profonda della tecnologia come elemento centrale del raggiungimento del perfezionamento finalistico dell’uomo». Indica quindi una prospettiva più ampia, che tende a «illuminare qualsiasi attività tecnica, in quanto può avere una risultante finale positiva per la persona e la tecnica stessa, nel valore oggettivo dei sui prodotti».
Incontriamo Galvan a un recente convegno sulla Robotica, dove ha appena tenuto una relazione dal titolo: “Cyborg: “terza specie” metà macchina, metà uomo? O essere umano tecnologicamente implementato?” e il discorso va subito sul concetto di cyborg: qual è la natura di un cyborg? «Curiosamente la parola cyborg è nata in ambito scientifico (introdotta dal matematico Norbert Wiener come scienza dei sistemi di controllo, ndr.) e poi è passata alla letteratura di fantascienza; il contrario di quanto è accaduto al termine robot. L’idea di cyborg, cyber organism, cioè di organismo cibernetico, è in realtà una ridondanza perché ogni organismo è cibernetico: ciò che caratterizza un organismo vivente è proprio la facoltà di regolazione e auto controllo; il fatto che alcune macchine abbiano dei sistemi cibernetici non rappresenta tanto una novità quanto il fatto che alcune macchine si avvicinano ai sistemi organici».
Considerando i più recenti risultati in questo campo, Galvan osserva che «le possibilità tecniche attuali di interfacciare macchine che hanno possibilità cibernetiche con organismi di per sé cibernetici, come i viventi, ha portato a dei sistemi diciamo così misti. Su questo si è creata tutta una speculazione accademica che intravvede in questa possibilità di interazione dei due sistemi cibernetici, quello biologico e quello meccanico, la prospettiva di superare i limiti della persona umana. Sono nate così tutti quei filoni di pensiero, come il transumanesimo o il postumanesimo, che vedono nel cyborg una possibilità di superamento dei limiti naturali».
Su questo però ci sono molti punti da precisare. Anzitutto, «non solo noi uomini siamo cyborg, perché come tutti i viventi siamo cibernetici, ma soprattutto abbiamo una capacità di interazione col resto della natura materiale che ci permette di usarla a nostro favore; non solo quindi come espressione del processo evolutivo in funzione puramente biologica, come ad esempio gli uccelli che costruiscono il nido, bensì possiamo interagire in modo culturale, attraverso la tecnica che implica sempre l’intenzionalità e la libertà umana. Se il cibo in un certo habitat si indurisce l’animale muore di fame o sviluppa una speciale capacità masticatoria ma in tempi molto lunghi; l’uomo invece impara a cucinare».



La capacità di integrare elementi esterni riguarda anche la corporeità dell’uomo, che però da sempre è stata implementata meccanicamente; lo diceva già Aristotele: quando parlava di artifici, si riferiva anche a quelli che oggi noi chiamiamo protesi. «Non è lì quindi la novità. A questo livello si smonta subito il mito del postumanesimo: il tentativo di superare i propri limiti corporei è naturale ed è sempre stata una tendenza dell’uomo. È la cosa più naturale e umana essere homo technicus o, come preferisco dire, cyber sapiens».
Il tema del superamento dei limiti umani esige però un approfondimento. Qui la riflessione di Galvan si fa più acuta e attenta. «Quando si parla di superamento dei limiti bisogna vedere di che limiti parliamo. Se ci riferiamo a quelli imposti dalla nostra natura materiale, nessun problema; se postumanesimo volesse dire solo questo, potrei anche essere d’accordo. Il fatto è che invece si pensa anche a dei limiti che sono estrinseci alla nostra natura materiale. E qui non sono d’accordo. Se ad esempio si passa dalle tecnologie per il prolungamento della vita ad ipotizzare l’immortalità allora siamo di fronte a un salto innaturale, che esce dal quadro del sistema-uomo. 
Ci sono aspetti della persona umana che non sono traducibili totalmente in processi algoritmici: sono ad esempio quei processi guidati da una causalità finale, come le decisioni morali: un computer anche se dotato di una capacità di calcolo immensa, non potrà mai essere un assistente morale. Ma si può fare un esempio ancor più facile: una carezza, come atto meccanico, guidato quindi da una causalità efficiente, è riproducibile da un robot e può esserlo anche in modo sofisticato; tuttavia come atto propriamente umano è unico e irripetibile. Un robot può fare gesti che assomigliano a una carezza ma non sarà mai una “carezza”».
C’è da aggiungere che il livello tecnologico attuale non è ancora così avanzato ma in futuro si possono ipotizzare realizzazioni che si avvicinano molto al limite dell’atto umano: ma saranno sempre degli avvicinamenti asintotici, verso un traguardo separato da un salto impraticabile. 
«Nessun cyborg sarà mai al livello del cyber sapiens umano: la corporeità umana informata dallo Spirito è imbattibile. Ha una plasticità che nessun sistema artificiale potrà avere perché è una plasticità che corrisponde proprio alla libertà umana. Un braccio artificiale potrà essere, di per sé, più efficiente di un nostro braccio, ma se lo sostituissi, non a causa di una infermità ma con la sola motivazione di migliorare le mie prestazioni, fallirei l’obiettivo».



Il lavoro di Galvan come teorico della tecnoetica è indirizzato a sviluppare principi e criteri che permettano di individuare quando una applicazione cibernetica possa essere usata nell’ambito dell’essere umano senza snaturarlo e quando invece si va oltre o contro l’uomo. Non sembra peraltro molto preoccupato per i rapidi avanzamenti tecnologici, quanto per la crescente debolezza diffusa di concezione antropologica e per un persistere di una visione scientista. «Ritengo che la tecnologia abbia questa caratteristica: più si sviluppa più mette in risalto la persona. Certo, all’inizio ciò non appare: le tecnologie nelle fasi iniziali sono prevalentemente invasive; è stato così per le più affermate, dai treni al telefono. Poi però lo sono sempre meno, perché entrano all’interno della struttura dialogica dell’essere umano». 
È questa natura dialogica e relazionale dell’uomo che può far guardare la tecnologia in modo nuovo: «L’uomo che è consapevole di realizzare se stesso nella relazionalità interpersonale tramite la condivisione degli oggetti intenzionali dell’intelletto e della volontà, sa di dover e di poter farlo non soltanto nella dimensione spirituale del suo essere, ma anche in quelle materiale. La sua interazione con la materia perché questa venga inserita a pieno titolo nel dialogo interpersonale è il contenuto ultimo della tecnologia. Per questo la tecnologia ha come oggetto l’incremento della relazionalità umana, e per questo quando la scienza diventa tecnologia si umanizza».
Il rischio che Galvan vede è semmai che una scienza assolutista e presuntuosa imponga alla tecnica di esserle sottomessa: «A mio parere, ma qui so di andare controcorrente anche rispetto a molti che condividono la mia stessa visione del mondo, dovrebbe essere il contrario. Alla tecnoscienza dominante che porta la tecnologia a una posizione di sottomissione, bisogna sostituire una scienza autentica, che sa essere aperta alla verità autentica dell’uomo, che va al di là del suo ambito, ma alla quale può e deve servire».
È una prospettiva interessante: varrà la pena riparlarne. 



(Mario Gargantini)