Sarà un piccolo grande evento, nel suo genere, e chi potrà parteciparvi, nel pomeriggio di domani, sabato 24 novembre a Milano, si troverà immerso nel clima eccitante prodotto dal mix di controspionaggio, matematica e tecnologie informatiche. Quello che si potrà rivivere al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci saranno l’attività della macchina per crittografia elettromeccanica Enigma, utilizzata nella prima metà del secolo scorso dai tedeschi per la cifratura dei messaggi riservati, e la controattività degli Alleati che ne hanno violato il codice nel 1942.



Protagonista principale dell’azione alleata è stato Alan Turing, matematico inglese considerato il padre del moderno calcolo elettronico e dell’intelligenza artificiale, del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita. L’evento milanese si colloca tra quelli che concludono degnamente le celebrazioni, con una connotazione non solo accademica e scientifica ma anche storica e spettacolare. L’iniziativa è infatti inserita all’interno di una mostra dedicata alla storia del calcolo automatico e dell’informatica, “Tecnologie che contano. Alan Turing tra macchine e computer”, e il momento culminante sarà la spettacolare messa in funzione di un esemplare di Enigma: saranno Alberto Campanini e Bruno Grassi, dell’Associazione Rover Joe, introdotti dal curatore del Museo Luca Reduzzi, a spiegare il meccanismo di cifratura della macchina e come Turing e colleghi riuscirono a forzare il codice.



Enigma è il più noto esemplare di macchina cifrante a rotori, come altre che iniziarono a diffondersi all’inizio del ’900; è stata inventata nel 1918 dal tedesco Arthur Scherbius e la sua struttura si rifà nientemeno che al principio di funzionamento del disco cifrante di Leon Battista Alberti. Il modello esposto a Milano ha le dimensioni grosso modo di una vecchia macchina per scrivere: si presenta come una scatola metallica scura con, sul lato superiore, una tastiera di 26 lettere posta inferiormente rispetto a una sua esatta riproduzione in versione di “spie luminose” (visore), tali cioè che una lettera della tastiera superiore si illumina ogni qualvolta viene premuto un tasto in quella inferiore. Al di sopra della “tastiera luminosa” sono posizionate tre feritoie dalle quali si affaccia la corona dentata di un disco (il rotore) e una corrispondente finestrella che mostra la cifra di un contatore; c’è poi un apposito selettore meccanico.



La cifratura avveniva posizionando i rotori in un certo assetto e tale posizione costituiva una chiave che veniva cambiata ogni giorno secondo una regola prefissata; naturalmente, i collegamenti interni dei rotori erano segreti; inoltre i tre rotori potevano essere scambiati tra di loro, configurando sei disposizioni possibili e quindi aumentando il numero di potenziali posizioni iniziali. Il suo utilizzo era relativamente semplice e la sua fama di indecifrabilità fece sì che su Enigma si basasse tutto il sistema di segretezza della Germania nazista. 

Il tentativo di violarne il codice è una delle più famose storie di controspionaggio del XX secolo. I primi tentativi si devono a un gruppo di matematici polacchi guidato da Marian Rejewski che nei primi anni 30 era riuscito a ricostruire la struttura dei rotori e a decrittarne i messaggi. Nel febbraio 1940, con la cattura dell’esemplare a bordo del sottomarino tedesco U-boat 110, si riescono a fornire importanti indicazioni al team di scienziati impegnati a tempo pieno nella decifrazione. Gli scienziati sono riuniti a Bletchley Park, una tenuta a circa 75 km a Nord-Ovest di Londra e sede dell’unità principale di crittoanalisi del Regno Unito; qui nel corso della guerra hanno lavorato circa 12.000 persone, l’80% delle quali donne; oggi è sede del Museo Nazionale del Calcolo.

A Bletchley Park arriva anche Turing che riesce a realizzare un elaboratore elettromeccanico, “The Bombe”, in grado di svolgere il compito di analisi e decrifratura in modo straordinariamente efficiente: nel 1942 si arrivò a decrittare più di 80.000 messaggi cifrati tedeschi al mese.

Sullo sfondo di questa attività di Turing, c’è un enigma ancor più stimolante e non ancora violato: è quello riassunto nel celebre test che porta il suo nome (test di Turing) e consiste nel trovare un programma che renda un computer indistinguibile da un essere umano. Turing si era chiesto già nel 1950, in un celebre articolo, se i computer potevano “pensare” e aveva immaginato il test dove una giuria di esperti sottopone a interrogatorio due interlocutori, un uomo e un computer, senza sapere quale sia l’essere umano e quale la macchina. Il celebre matematico inglese aveva predetto che entro il 2000 i computer avrebbero ingannato il 30% dei giurati, prefigurando l’avvento di macchine “pensanti”.

Macchine che però nessuno ha ancora visto. Neppure i partecipanti al Premio lanciato nel 1990 dall’eccentrico magnate Hugh Loebner, che ha messo in palio 25.000 dollari per il primo programma in grado di convincere i giudici che al posto suo c’è un vero e proprio uomo. L’edizione 2012 del premio si è svolta, simbolicamente, a Bletchley Park ma ancora una volta l’obiettivo non è stato pienamente raggiunto. Forse però l’interesse maggiore del test – come sostiene Brian Christian che vi ha partecipato nel 2009 e lo ha raccontato nel libro “Essere umani” – più che sulle potenzialità delle macchine è sull’identità degli umani: «Alla fine dei conti, la questione è capire cosa significhi essere umano, che cosa può insegnarci il test di Turing su noi stessi». E probabilmente era questo tipo di interrogativi che ha mobilitato nel profondo l’intelligenza vivace e inquieta di Alan Turing.