Come abbiamo imparato, oramai da tempo, l’Italia è un Paese specializzato nel racconto dei disastri avvenuti, dai sismi alle frane, dalle alluvioni ai dissesti idrogeologici, fino ai tracolli della borsa. Per chi vive nel mondo della ricerca universitaria è noto che la forza mediatica della comunicazione degli eventi quotidiani, si tratta quasi sempre di episodi negativi, prevale ostinatamente sulla diffusione di conoscenze riguardanti lo stato di avanzamento delle ricerche in corso, finalizzate a prevenire o a ridurre gli impatti derivanti dai rischi naturali.
Appare evidente che qualcosa non stia funzionando a livello di interazione tra ricerca scientifica e il succedersi di eventi calamitosi. Esiste una modalità con la quale il mondo politico ha costruito, nel tempo, una netta separazione tra il sapere scientifico, finalizzato all’affronto dei rischi naturali, e la gestione dell’informazione che, per come è deducibile dai telegiornali nazionali, snocciola, attraverso una sapiente regia, i disastri accaduti, ma trascura, volutamente, la comunicazione inerente la produttività scientifica delle Istituzioni che operano per prevenire e combattere il rischio idrogeologico. Così ha buon gioco l’immancabile intervento della Magistratura, che, spesso anche giustamente, attribuisce colpe e responsabilità, in un arco temporale indefinito, a chi di dovere. La politica si propone sempre più come regia, oramai obsoleta, di un Paese dissestato non solo sul piano idrogeologico, ma soprattutto su quello morale, identitario, operativo e lavorativo, sul piano finanziario e su quello culturale: la negatività sembra fare scuola attraverso la censura sistematica di un positivo che, invece, esiste e fa molta fatica ad esporsi o ad affacciarsi in un mondo malato di inutilità.
Intanto, mentre la crisi finanziaria europea avanza, sgominando, in nome dell’euro, civiltà e culture come la Grecia e il Portogallo, si attenuano le risorse per le Università, mentre nei Ministeri e nelle pubbliche Amministrazioni esperti, talora di dubbia credibilità scientifica, erodono sostanze importanti, che l’Università potrebbe, forse, utilizzare in modo più proficuo. Negli ultimi tre anni, ad esempio, tra gli esperti nominati dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, nonostante la presenza nel dicastero di un organico più che nutrito, ai sensi del DPR 245/ 2001, art.8, comma 1, nessuno di loro afferisce al mondo universitario.
Ma è soprattutto la grave mancanza di cultura, assolutamente priva di cognizioni scientifiche, da parte dei politici di turno a frustrare e vanificare chi è onestamente impegnato nell’affronto delle problematiche in oggetto. Ad ogni guaio ambientale seguono, di regola, le lamentazioni per la devastazione del territorio, il lutto per i morti e la miserevole considerazione che, non essendoci fondi a sufficienza, non si sarebbe potuto evitare quanto è accaduto. I disastri rimangono oggetto di discussione, qualcuno finisce in galera, intanto si piangono i morti.
«I disastrosi eventi climatici degli ultimi giorni, che hanno devastato alcune regioni e causato anche vittime, richiamano l’attenzione sulle cause del dissesto idrogeologico del nostro paese». Così afferma l’Accademico dei Lincei Giovanni Seminara, dell’Università di Genova, in un comunicato diffuso a metà novembre: «l’Italia è stretta in una morsa, da un lato il quadro normativo, tuttora fondato su Regi Decreti di inizio ‘900, confuso, in cui si intrecciano norme europee, nazionali, regionali che faticano ad integrarsi perché prive di un disegno unitario e coerente e dall’altro l’inadeguatezza delle risorse finanziarie che impediscono di realizzare misure strutturali di difesa dal rischio idrogeologico».
«La dinamica degli eventi disastrosi che continuano a colpire il nostro Paese – continua il documento – rivela che, a limitare l’efficacia complessiva del sistema, accanto alla necessità di migliorare ulteriormente le capacità previsionali, è proprio la difficoltà da parte dei decisori a trasformare l’informazione prodotta dai Centri Funzionali in azioni di tutela della sicurezza dei cittadini». Secondo la Segreteria Tecnica per la difesa del suolo del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, i comuni italiani ad alta criticità idrogeologica sono 6.633, corrispondenti all’81,9% del totale, con una superficie pari a 29.517 kmq di aree a rischio. Le aree ad alta criticità idrogeologica, secondo i dati raccolti dai Piani straordinari approvati o dai Piani stralcio predisposti per l’assetto idrogeologico, adottati o approvati dalle Autorità di bacino, Regioni e Provincie autonome, corrispondono ad una superficie esposta pari al 9,8% del territorio nazionale.
Per poter affrontare problemi così complessi, occorre mettere in campo una quantità di risorse che l’Italia, in questo momento, sembra non avere a disposizione. Per questo appare non solo ragionevole, ma decisamente opportuna la lettera del 19 novembre 2012 del Ministro Clini al commissario europeo all’Ambiente, Janez Potocnik, e alla commissaria per l’Azione per il Clima, Connie Hedegaard, nella quale, tra l’altro, si afferma: «Abbiamo stimato che per gli interventi di prevenzione e messa in sicurezza del territorio nazionale, oltreché di ripristino, sarebbero necessari investimenti per almeno 40 miliardi di euro» (nell’arco dei prossimi 15 anni). Se l’Unione Europea iniziasse a rendere disponibili progressivamente tali risorse, è facile immaginare la quantità di nuovi posti di lavoro che potrebbero rendersi disponibili… e quindi vedremo quali saranno le risposte.
Di fronte a questo stato di cose del nostro bel Paese, mi sembrano particolarmente centrate le parole del Ministro Clini, che politico non è, mentre è un ottimo tecnico a livello internazionale, in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico dell’Università di Parma, il 19 novembre scorso, rivolgendosi ai giovani universitari. «La vostra protesta, quando non sfocia nella violenza, è una risorsa per il futuro di tutti noi (…) abbiamo bisogno di cultura, di fantasia, di voglia di innovare, di competenze nuove. Non usciremo dalla crisi se non riusciremo ad innovare i modelli culturali, sociali e dello sviluppo industriale del secolo scorso. Siamo stati e siamo impegnati a mettere in sicurezza l’economia dell’Italia, avendo chiaro che l’eredità del “Novecento” non è solo nel debito pubblico, ma, soprattutto, in una organizzazione dello Stato e dell’economia che hanno depresso e ostacolato l’innovazione e la cultura del rischio: un’eredità ben visibile nel gap di innovazione e di visione dell’amministrazione pubblica compresi scuola, università e istituti di ricerca».