Pochi campi della ricerca scientifica riescono a catturare l’attenzione anche dei non addetti come l’astrofisica. Non appena qualcuno riesce a svelare qualcosa di nuovo sulle profondità del cosmo, anche i più lontani dal mondo delle scienze esatte si trovano addosso una strana curiosità: investigare il cosmo infatti è come mettersi all’ascolto di qualcosa di grande e lontano, ma al quale noi, creature apparentemente insignificanti su un poco meno insignificante puntolino nell’Universo, siamo misteriosamente legati. Proprio la scoperta di legami profondi fra noi e l’immensità del cosmo è quanto di più stupefacente emerge dallo sviluppo delle conoscenze in campo astrofisico negli ultimi decenni: la nostra vita è intimamente e sorprendentemente legata alla struttura e alla storia dell’Universo.
Ma come si è potuto raggiungere tali risultati? Abbiamo forse trovato una definizione univoca e certa di cosa sia la vita e di quali siano i meccanismi che la fanno comparire? Non è così: la vita resta un mistero nella sua definizione ultima. Ma la scienza non demorde e cerca qualcosa che ci aiuti a trovare tracce e indizi per una presa di coscienza sempre più profonda del fenomeno-vita. Quello che infatti si può ricercare sono le condizioni che permettono la vita, nella speranza di capirne sempre di più i meccanismi originanti: su questa strada si sono trovati legami insospettabili fra quasi tutte le discipline scientifiche, ed è nata una nuova classe di ricercatori, esperti delle varie discipline -gli astrobiologi- che fornisce spunti per nuove attività e missioni di ricerca.
È proprio in questo solco che si inserisce un nuovo e particolare progetto di ricerca dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea), che vede la partecipazione attiva dell’Italia: la missione CHEOPS. L’acronimo sta per CHaracterizing ExOPlanets Satellite e, pur richiamando il nome del grande Cheope, Faraone della Terza Dinastia famoso per l’enorme piramide nella quale venne sepolto, la sua particolarità sta nelle piccole dimensioni che caratterizzano la missione. CHEOPS infatti è la prima missione di classe “s” decisa dall’ESA, dove “s” sta per small, cioè piccolo. Il numero dei paesi coinvolti (Svizzera, Inghilterra, Belgio, Polonia, Svezia, Francia, Italia), il tempo previsto per il lancio del satellite (solo 5 anni) e il costo messo a budget (“appena” 150 milioni di euro, di cui 50 messi dall’ESA) fanno infatti di CHEOPS un nuovo standard di missione che l’ESA vuole perseguire, senza però perdere in qualità scientifica, seguendo il precedente illustre della Nasa, che ha già messo in campo missioni di questo tipo, diminuendo il numero delle missioni “medium” e “large”.
CHEOPS prevede la realizzazione di un satellite capace di stabilire dimensioni e densità di pianeti non appartenenti al Sistema Solare – gli esopianeti – osservando le variazioni di luminosità di stelle brillanti dovute al transito di tali pianeti, ma non solo: le informazioni che CHEOPS otterrà riguarderanno anche la composizione chimica dell’atmosfera dei pianeti osservati. Non andrà alla ricerca di nuovi pianeti, ma focalizzerà la sua attenzione su sistemi solari già scoperti, fornendo dati mai ottenuti a riguardo di pianeti esterni al Sistema Solare.
È proprio questo che rende CHEOPS unico e interessante per l’astrobiologia: quali siano la densità e la composizione chimica della loro atmosfera e del loro interno ci dà informazioni relative ai meccanismi di formazione dei pianeti e dei sistemi solari, andando ad accrescere la nostra conoscenza della storia del cosmo e del suo essere capace di generare luoghi potenzialmente accoglienti per la vita.
CHEOPS rivolgerà la sua attenzione a una classe di pianeti ben definita: i pianeti terrestri, cioè quelli che hanno una composizione e una densità simili alla Terra, diversi dai giganti gassosi, come Giove, Saturno, Nettuno e Urano. I pianeti che osserverà hanno dimensioni del raggio che variano da uno a sei volte quello terrestre, e con masse fino a 20 volte quella del pianeta blu, le cosiddette “super-Terre”. Per scegliere i corpi da osservare si appoggerà a osservazioni già svolte da altri satelliti, senza – come già detto – andare a cercare nuovi sistemi planetari o comunque focalizzandosi su stelle delle quali esistono già forti indizi di presenza di pianeti intorno a loro.
Il lavoro di caratterizzazione dei pianeti si avvarrà del contributo dello spettrografo HARPS-N installato al Telescopio Nazionale Galileo sulle Isole Canarie, ma questo non è l’unico aspetto per cui l’Italia darà un contributo determinante: sul versante tecnologico, infatti, l’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica) affiancherà l’ASI (Agenzia Spaziale Italiana) nella realizzazione degli specchi principale e secondario del telescopio di bordo, dello schermo che protegge il satellite e la sua strumentazione dalla radiazione solare e alla calibrazione del sistema di puntamento. La missione potrà contare sull’utilizzo del Centro dell’ASI di Malindi come stazione di terra e sull’ASI Science Data Center (ASDC) per la riduzione e l’archiviazione dei dati.
Tre astrofisici italiani sono fra i proponenti la missione: Isabella Pagano, dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Catania, Barbara Negri, responsabile dell’Unità Esplorazione e Osservazione dell’Universo dell’ASI e advisor del Science Programme Board dell’ESA che ha selezionato la missione, Giampaolo Piotto, dell’Università di Padova, il quale commenta: «La partecipazione italiana a CHEOPS pone definitivamente la nostra comunità al massimo livello internazionale in un settore di ricerca giovane, ma di alto impatto scientifico e di grande interesse per il pubblico».
CHEOPS si stabilizzerà su un’orbita a 800 km di altezza dalla superficie terrestre, in una zona d’ombra rispetto al nostro Sole. Da questa ombra cercherà di fare luce su uno degli interrogativi più affascinanti: esistono altre Terre nell’Universo? E se sì, come si sono formate? Potremmo dire: “missione S, obiettivi XXXL”.