Le elevate temperature estive degli ultimi decenni hanno messo a dura prova i ghiacciai delle Alpi. I dati parlano chiaro: basta confrontare i rilevamenti eseguiti per il primo catasto nazionale predisposto dal Comitato Glaciologico Italiano (CGI), realizzato fra il 1959 e il 1962, con quelli del secondo catasto del 1989. Il primo aveva censito 838 corpi glaciali, di cui 745 ghiacciai veri e propri e 93 glacionevati, cioè forme prossime all’estinzione, estesi complessivamente su una superficie totale di 525 km². Nel secondo sono stati censiti 807 corpi glaciali, 706 ghiacciai veri e propri e 101 glacionevati, con una superficie totale glacializzata di 482 km². La riduzione areale è dunque stata di 43 km² in poco meno di un trentennio, con un ritmo annuo di circa 1,5 km².



C’è però chi sta dedicando intense attività di ricerca e di studio a questo problema, come Claudio Smiraglia, professore ed esperto glaciologo dell’Università degli Studi di Milano, che guida un gruppo di questo ateneo impegnato dal 2007, in collaborazione con Levissima, acqua minerale del Gruppo Sanpellegrino e sinonimo di purezza e di alta montagna, in un progetto di ricerca per lo studio della criosfera, ovvero l’insieme dei ghiacci presenti sul nostro pianeta. Il progetto – che ha visto la collaborazione scientifica del Politecnico di Milano (DIIAR), dell’Università dell’Insubria di Varese e del Comitato Ev-K2-CNR di Bergamo – ha attraversato diverse fasi con l’obiettivo di indagare e raccogliere dati sul ghiaccio, sul manto nevoso, sull’acqua di fusione glacionivale e sul permafrost.



Area di studio è il bacino glaciale Dosdé-Piazzi (Alta Valtellina), localizzato in un Sito di Importanza Comunitaria (SIC) e in una Zona a Protezione Speciale (ZPS) nell’ambito dei siti di Rete Natura 2000, che è divenuto un vero laboratorio a cielo aperto. Smiraglia ci ha illustrato le tappe principali di questa attività, iniziata con l’obiettivo di ampliare la conoscenza dell’evoluzione del ghiacciaio in rapporto al clima: allo scopo è stata collocata sulla sua superficie una stazione meteorologica automatica (AWS) che raccoglie dati sui flussi termici ed energetici.

È seguita poi, nel 2008, la fase della mitigazione quando, per la prima volta in Italia, sono state sperimentate tecniche di riduzione della fusione nivoglaciale collocando, sulla superficie del Dosdè per un’estensione di 150 m², uno speciale geotessuto bianco che ha impedito la penetrazione dei raggi ultravioletti e ha protetto neve e ghiaccio dalle alte temperature estive. L’anno successivo si è iniziato il secondo esperimento di protezione attiva del ghiacciaio con la stesura di un nuovo telo protettivo geotessile, sotto il quale sono stati collocati alcuni termometri per misurare la “febbre” del ghiacciaio durante il periodo estivo. Sono inoltre iniziate le ricerche del gruppo di idrologia del Politecnico di Milano, per il monitoraggio delle portate dei torrenti e la valutazione dei bilanci idrologici dei bacini glacializzati.



Nel 2010, in collaborazione con l’Università dell’Insubria, i geologi sono andati alla scoperta del ghiaccio nascosto, cioè del permafrost, un fondamentale indicatore climatico ma ancora poco studiato in Italia. «Il permafrost – dice Smiraglia -è il ghiaccio interstiziale interno alle rocce. Ora, la situazione di allarme ambientale non riguarda solo il ghiaccio superficiale ma anche il permafrost; con conseguenze immaginabili di indebolimento delle rocce che prima, a 3.800-4.000 metri, erano sempre gelate e compatte, adesso invece tendono a  subire l’onda termica estiva che penetra nelle pareti rocciose , scioglie il permafrost e produce frane, crolli, anche di grandi dimensioni».

Le ricerche sono proseguite con lo studio del ghiaccio di superficie per arrivare, lo scorso anno, allo studio della neve. I ricercatori si sono focalizzati sulla neve che riveste il Gruppo Dosdè-Piazzi, per capire quanta acqua, proveniente dalla sua fusione, vada ad alimentare i torrenti di media e bassa quota.

Quali risultati si possono finora elencare? «Una conferma della tendenza alla riduzione della superficie glacializzata: in poco più di mezzo secolo si è registrata una contrazione areale complessiva di circa 5 km². Inoltre abbiamo osservato un’accelerazione della riduzione glaciale che, dal 2003 al 2007, si è addirittura triplicata ed è stata più intensa in questo settore delle Alpi, caratterizzato da apparati glaciali di piccole dimensioni».

Gli esperimenti con il tessuto geotessile hanno permesso di valutare l’efficacia di queste strategie di protezione su un ghiacciaio naturale. I rilievi condotti hanno dimostrato che il geotessuto permette di preservare, durante la stagione estiva, il 40% circa del manto nevoso presente sulla superficie del ghiacciaio a fine primavera, a 2.850 m di quota, e oltre l’80% del ghiaccio glaciale. Il geotessuto agisce smorzando del 50% l’onda termica responsabile della fusione glaciale e riducendo di oltre il 40% l’energia solare assorbita.

Le misure di portata del torrente Dosdè hanno evidenziato che in agosto la fusione glaciale è l’apporto predominante, mentre in giugno e luglio gli apporti maggiori sono conseguenti alla fusione nivale. Su scala annuale, il ruolo giocato dalla fusione nivale è pari se non superiore a quello della fusione glaciale; questa componente è fondamentale per garantire la portata dei nostri torrenti di alta quota e per mitigare le magre estive nei fiumi di pianura.

La presentazione di tali risultati è stata anche occasione per lanciare il nuovo progetto di ricerca per la realizzazione del “Catasto dei ghiacciai italiani”, in collaborazione con il Comitato Ev-K2-CNR e con il patrocinio del CGI. Dal 1989 non viene realizzato un elenco completo e omogeneo dei nostri ghiacciai, che sono una risorsa importante dal punto di vista idrologico, climatico e turistico; e in questo periodo  sono avvenute variazioni non da poco nel glacialismo italiano. «Se poi si pensa che proprio il glacialismo è ormai considerato l’indicatore più affidabile delle trasformazioni climatiche in atto, il significato di questo progetto appare subito ben chiaro».

Il nuovo catasto sarà predisposto per rispondere ai requisiti del World Glacier Monitoring Service (WGMS), l’ente internazionale con sede a Zurigo che raccoglie e rende disponibili i dati dei ghiacciai di tutto il mondo. Si prevede la rilevazione, per ogni ghiacciaio, di una serie di dati identificativi – codice CGI, codice WGI, nome, coordinate, gruppo montuoso, bacino idrografico – classificativi – ghiacciaio, glacionevato, ghiacciaio vallivo, ghiacciaio montano – e morfometrici – superficie, esposizione.

Smiraglia ci spiega come si procederà nel lavoro, che dovrebbe concludersi entro il 2014: «Partiremo dalla documentazione che esiste già e poi lavoreremo sulle immagini da satellite e soprattutto sulle ortofoto, che sono fornite prevalentemente dalle Regioni e si prestano a un accurato lavoro di analisi. Durante la prossima estate vedremo se ci sono lacune importanti: in tal caso organizzeremo un volo apposito per completare il quadro».

Il lavoro non è però così semplice e non basta avere le foto: «Intanto devono essere immagini con una buona risoluzione e prive di copertura nivale e nuvolosa. Certo oggi abbiamo tecnologie molto avanzate che ci aiutano, si pensi ai GIS (Sistemi Informativi Geografici); ma alla fine serve sempre la conoscenza diretta». Anche perché c’è il fenomeno in aumento della copertura detritica: «i ghiacciai sono sempre più neri e detriti di ogni tipo coprono molte parti di molti ghiacciai e rendono non sempre facile dire dove inizia e dove finisce il ghiacciaio. Qualcosa si vede anche dalle immagini: la parte coperta è infatti convessa perché i detriti in parte proteggono dallo scioglimento; a volte, se si vede un torrentello che esce dal di sotto dello strato di detriti, si ha un chiaro indizio della presenza di acqua ghiacciata. Poi però ci vuole l’occhio umano e bisogna “metterci sopra i piedi”».

In queste parole del professor Smiraglia cogliamo un cenno a un curioso paradosso: i detriti potrebbero diventare un fattore di omeostasi, quasi che la Terra si protegga, entro certi limiti, dallo scioglimento dei ghiacciai. «Lo stiamo proprio studiando in questo periodo. Ci sono due situazioni: se il detrito è fine e disperso, come potrebbe accadere con la fuliggine e con particelle inquinanti, incrementa la fusione perché il pulviscolo assorbe il calore e lo ritrasmette al ghiaccio; se invece si tratta di detriti dovuti a frane, con spessori di decine di centimetri, allora il ghiaccio sottostante è quasi completamente protetto. Anche di questo fattore bisogna quindi tener conto quando si fanno i modelli e le previsioni per il futuro». Insomma, il riscaldamento globale è un problema, ma non c’è solo quello.

 

(Mario Gargantini)