Nelle scorse settimane ha avuto un certo risalto la notizia di un’importante scoperta di un gruppo di ricerca italiano guidato da Stefano Gustincich della SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) di Trieste, pubblicata online nel numero del 14 ottobre della rivista Nature; tra gli altri, le ha dedicato un interessante commento Edoardo Boncinelli sul Corriere della Sera del 21 ottobre. Il manoscritto per la verità era stato inviato alla rivista inglese il 3 dicembre 2010, ma è stato accettato per la pubblicazione il 14 agosto 2012, più di 19 mesi dopo; fatto che la dice lunga sulle perplessità che la ricerca deve avere suscitato nei referees (i revisori degli articoli scientifici).
Tutti sappiamo che i geni, a livello molecolare, sono segmenti di DNA che a sua volta è costituito da due filamenti, avvolti uno sull’altro a doppia elica. Dei due filamenti, uno solo contiene la sequenza “senso”, cioè quella che è trascritta nel corrispondente RNA (l’RNA messaggero) che a sua volta dirigerà la sintesi della proteina codificata dal gene. L’altro filamento, quello con la sequenza di basi complementare al filamento “senso” (e per questo chiamato “antisenso”), a cosa serve? Finora la sua funzione era considerata essere principalmente quella di assicurare la fedele replicazione del DNA essenziale per la trasmissione dell’informazione genetica alle cellule figlie. Durante la replicazione infatti, la doppia elica si apre e su ognuno dei due filamenti (senso e antisenso) viene sintetizzato un nuovo filamento con sequenza complementare a quello usato come stampo. Si ricompone così la coppia di filamenti “senso e antisenso”.
La scoperta di Gustincich e collaboratori sta nell’aver dimostrato che, in un gene che nel filamento “senso” codifica per una proteina coinvolta in alcune funzioni cerebrali e in malattie neurodegenerative, anche il filamento “antisenso” è trascritto come RNA e questo RNA è trasportato nel citoplasma dove assiste l’RNA messaggero prodotto dal filamento “senso” nella sintesi della proteina corrispondente.
La scoperta è rilevante per almeno due ordini di considerazioni. La prima, ampiamente sottolineata da Boncinelli nel suo articolo, riguarda la quantità di informazione contenuta nel DNA. Si sa che solo una piccolissima parte del DNA codifica direttamente per le proteine: nell’uomo solo il 3-4% e, se definiamo un gene quella parte di DNA che contiene la sequenza per una proteina, il nostro DNA contiene 24.000 geni; un po’ pochini se confrontati con quelli di alcuni insetti o piante (anche se un gene può codificare per più di una proteina, a seconda di come viene assemblata la sequenza nell’RNA messaggero corrispondente).
E il resto del DNA a cosa serve? A nulla? È junk DNA, DNA spazzatura, come spesso si dice? Certamente una parte del DNA che non viene trascritto ha importanti funzioni: contiene sequenze che legano le proteine coinvolte nella trascrizione dei geni, nel processo di duplicazione del DNA, sequenze necessarie per la struttura stessa dei cromosomi ecc. Ma ne resta ancora una buona quantità. Con un criterio utilitaristico, dovremmo supporre che questo DNA debba servire a qualcosa, visto che è in larga parte trascritto come RNA (proveniente sia dal filamento senso che da quello antisenso) con dispendio energetico da parte della cellula; un RNA però che non codifica per proteine e che per gran parte rimane nel nucleo.
In effetti sono state identificate varie funzioni per questa “materia oscura” trascritta (controllo della stabilità degli RNA messaggeri nel nucleo, “silenziamento” epigenetico ecc). Proprio qui si situa la scoperta riportata nell’articolo di Nature. Alcuni di questi RNA non codificanti non rimangono nel nucleo ma sono trasportati nel citoplasma dove svolgono una funzione precisa: quella di assistere la sintesi della proteina codificata dal RNA messaggero prodotto dal filamento “senso” corrispondente.
Prima conclusione: il filamento antisenso ha funzioni ben oltre quello di semplice stampo nella duplicazione del DNA e di regolatore degli RNA nel nucleo: interviene anche nella sintesi delle proteine. Seconda conclusione: c’è ancora spazio per del DNA spazzatura? Probabilmente no; ogni parte del DNA viene utilizzata, ha una funzione e molte di queste funzioni attendono di essere scoperte. Terza conclusione: ma allora cos’è un gene?
Proviamo a ripercorrere la storia. Prima di Mendel il patrimonio ereditario era considerato un tutto unico indivisibile, il cosiddetto homunculus. Per Mendel (1860) il patrimonio ereditario è costituito invece da “elementi discreti” (i geni), indipendenti uno dall’altro, che passano dai genitori ai figli. Per George Beadle ed Edward Tatum (1941) un gene contiene l’informazione per un’enzima (un gene/una proteina), ma oggi sappiamo che un gene può codificare per molte proteine (più del 94% dei geni umani contengono l’informazione per più di una proteina). Per Oswald Avery (1944) il gene è un frammento di DNA. Per Francois Jacob e Jacques Monod (1961) un gene è una sequenza di DNA divisibile in due parti, la parte che codifica per la proteina e la parte che regola la trascrizione (il promotore) e, per estensione, l’intero genoma è costituito da una sequenza lineare di elementi funzionali interspersi tra elementi non funzionali.
E oggi? Si sta affermando un concetto di gene essenzialmente relazionale: un gene è un processo, una dinamica di eventi, che lega insieme tanti segmenti di DNA tutti coinvolti nella produzione di proteine. I genomi quindi vengono prima dei geni e i geni devono essere pensati come manifestazione della fisiologia del genoma.