Tempo fa, a messa, sono stato colpito dalle parole del salmo responsoriale 145: “Apri la tua mano Signore, e sazia tutti i viventi”. Le domande che mi sono fatto in quel momento sono state: perché dobbiamo tutti (noi viventi) vivere in una situazione di continua penuria di risorse? Non sarebbe meglio e più rispondente all’idea di un Dio infinitamente buono vivere in base ad un paradigma di abbondanza illimitata?



Ovviamente la risposta “canonica” viene dal Peccato Originale e dalla conseguente perdita proprio del paradigma di disponibilità totale del Giardino. E’ però possibile considerare questa universale situazione esistenziale alla luce della dinamica evolutiva e della complessità, e penso che le considerazioni che ne seguono possano essere interessanti come risposta alle tipiche obiezioni mosse da atei ed agnostici al concetto di un Essere infinitamente potente e buono.



L’ambiente che costituisce il palcoscenico delle creature viventi è complesso, ed ogni organismo che lo anima è esso stesso un sistema complesso. Questi sistemi hanno, tra le altre, la caratteristica di essere aggregati di sotto-sistemi a loro volta complessi, in una struttura a molti livelli di composizione, e questa architettura è praticamente sempre il risultato di una evoluzione.

Proviamo ad esaminare con una metafora coreografica il processo evolutivo, che vediamo come principale scenario/regista di queste strutture.

Le danze degli esseri viventi, che possiamo vedere come rappresentazione dall’”élan vital” di Bergson, hanno la fondamentale caratteristica di muoversi in senso contrario al generale disfacimento di ordine nell’universo: sfruttano l’entropia per continuare e migliorare la loro danza. L’entropia è la misura del disordine, della dispersione casuale, di un dato ambiente fisico, e il secondo principio della termodinamica ci insegna che questa misura non può che aumentare globalmente per qualunque trasformazione o movimento che avvenga in quell’ambiente. Un classico esempio che viene fatto è quello di due gas di pari peso contenuti in una scatola e separati da un diaframma: tolto il diaframma in poco tempo i gas si mescolano, e l’iniziale configurazione ordinata (tutte le molecole del gas A a destra e quelle di B a sinistra) si perde. La probabilità che con i moti “casuali” delle molecole si ricostruisca l’ordine iniziale è praticamente nulla.



L’ordine fisico in un ambiente è anche una misura del potenziale di ottenerne dei processi dinamici, del lavoro utile, delle danze nella nostra metafora, e questo potenziale diminuisce con l’aumento del disordine.

Se prendiamo l’universo come ambiente di riferimento, il disordine non è (fortunatamente per noi) distribuito uniformemente, e i sistemi viventi sono in grado di mantenere una grande organizzazione interna (cioè ordine) “dissipando” (espressione di Ilya Prigogine) entropia, cioè disordine, nel loro ambiente. In questo modo la legge dell’aumento di entropia globale viene rispettata pur in presenza di isole locali di continuo aumento della complessità strutturale. Un aspetto interessante di queste danze è che possiamo considerare la capacità di dissipare entropia come misura della conoscenza che un sistema ha del suo ambiente fisico.

Quindi gli esseri viventi utilizzano la loro conoscenza dell’ambiente che li ospita per auto-ordinarsi, aumentare la loro complessità, utilizzare in modo efficiente le risorse.

Per spiegare la complessa e meravigliosa coreografia della biosfera mancano a questo punto almeno due elementi. Il primo è proprio la limitatezza delle risorse. I sistemi viventi sono i migliori esempi di ciò che negli studi sulla complessità vengono chiamati sistemi adattativi complessi (CAS nella versione inglese), che sono in grado di adattare la loro struttura interna per ottimizzare l’uso delle risorse ambientali, in altri termini di massimizzare la capacità di dissipazione del disordine. I danzatori, utilizzando sia la competizione sia la cooperazione, costantemente inventano nuovi passi arricchendo la coreografia. La cooperazione sembra sia stata di gran lunga la tattica preferita, dato l’enorme numero di specie che utilizzano diverse risorse e hanno diversi stili di vita.

Il migliore esempio di cooperazione, iniziato più di un miliardo di anni fa e ancora molto efficace, è quello tra i primi organismi complessi unicellulari (eukarioti) e i più primitivi prokarioti, che hanno trovato vantaggioso essere incorporati dai primi e scambiare la loro efficienza come generatori di energia chimica col non doversi procacciare cibo. Noi animali ospitiamo miliardi di mitocondri nelle nostre cellule, e i vegetali ospitano i cloroplasti.

L’evoluzione però non ci sarebbe stata senza la limitatezza delle risorse: se i primi organismi avessero trovato una illimitata disponibilità di risorse, avrebbero continuato a nuotare (o strisciare) beatamente senza modificarsi, grazie ad un altro principio fisico universale, la tendenza dei sistemi a non cambiare: l’omeostasi. Quindi se noi siamo qui a considerare queste situazioni è grazie a questa evoluzione.

Un altro esempio del valore della penuria di risorse, più vicino a noi, è l’ipotesi accreditata che episodi tettonici, che hanno causato la Grande Faglia Africana, abbiano separato famiglie di scimmie dal loro precedente ambiente forestale ricco di cibo, costringendole ad adattarsi all’ambiente savana, che ha richiesto nuovi e interessanti espedienti di sopravvivenza, come il bipedalismo, che consentiva migliore visibilità di luoghi distanti e di poter correre trasportando oggetti, cibo, bambini.

L’altro elemento fondamentale, efficiente (e interessante) per l’evoluzione è la “spinta” a riprodursi e a colonizzare qualunque ambiente, rendendo in tale modo limitate le relative risorse, qualunque sia la loro iniziale disponibilità.

In questa luce la limitatezza delle risorse è una indispensabile premessa alla nostra partecipazione alla danza, con la responsabilità sia di rappresentare il culmine della coreografia, sia di fare in modo che lo scenario, e quindi la danza, evolvano nel migliore dei modi.

Naturalmente tutta questa storia, che ho interpretato in modo teleologico, può essere viceversa vista in modo riduzionista, come una cieca e casuale concatenazione di leggi fisiche, senza nulla di grandioso.

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