La focalizzazione della ricerca biologica sul materiale genetico, e quindi sulla sequenza del DNA come “decisore ultimo” di tutta la fenomenologia della vita, insieme a un grande ampliamento della nostra conoscenza dei meccanismi fini della regolazione biologica, ha innescato in questi ultimi 40 anni una pericolosa deriva “idealista” della biologia che si è pericolosamente smaterializzata.
Il DNA è una molecola con una struttura tutto sommato piuttosto ripetitiva e regolare (la doppia elica) il cui principio costruttivo fondamentale (essendo sostanzialmente invariante la struttura portante dello scheletro zucchero-fosfato) può essere ridotto a una procedura logica: l’accoppiamento tra basi azotate complementari per cui una citosina (C) si accoppia con una guanina (G) e una timina (T) con una adenina (A). Questo meccanismo consente di “dimenticarsi” della chimica e di considerare l’informazione biologica alla stregua di lunghissime serie formate dalla combinazione di quattro caratteri (A,G,C,T), la cui duplicazione e trascrizione si affida al meccanismo della complementarietà.
La fascinazione collettiva per questo meccanismo (aleggiante in frasi idiomatiche come l’ormai frequentissimo “era nel suo DNA”) ha generato una sorta di “biologia nel vuoto” dove tutte le operazioni di regolazione, sviluppo, metabolismo erano immaginate alla stregua delle operazioni logiche di un algoritmo, dove agenti immateriali (e quindi onnipotenti) interagivano con altri agenti formando complicatissime, ma essenzialmente deterministiche, sequenze di “se..allora..”. Il sostanziale fallimento di questo approccio puramente logico è sotto gli occhi di tutti: crollo verticale del numero di nuovi farmaci, impossibilità di scoprire le basi genetiche delle malattie (con pochissime eccezioni tra l’altro note da decenni, evidenti aporie del modello neodarwiniano).
È arrivato il tempo di “tornare alla materia”, alla realtà fisica della materia biologica, uscire dall’ubriacatura del virtuale. La vita della cellula si fonda su un metabolismo finemente regolato: le sostanze chimiche in entrata sono elaborate attraverso complicate sequenze di reazioni da cui deriva l’energia necessaria alla vita (catabolismo) e la costruzione delle strutture cellulari (anabolismo). Queste trasformazioni chimiche implicano sequenze anche molto lunghe (più di una dozzina di eventi coordinati) in cui il prodotto di una certa reazione chimica è il reagente della reazione chimica immediatamente seguente.
Chiunque conosca anche solo i rudimenti della chimica-fisica si accorge che questo non è assolutamente possibile in un puro regime diffusivo di urti casuali; già una reazione che coinvolge tre urti in sequenza è praticamente impossibile, figuriamoci un processo che ne coinvolga dodici; se a ciò aggiungiamo che l’efficienza dei vari passaggi (costanti di reazione, affinità chimica) può essere variata a piacere anche di tre ordini di grandezza, attivando alcune vie e “chiudendone” altre, siamo ben dentro il campo della magia.
Lo stesso si può dire per l’azione dei farmaci, o per le risposte immunitarie, dove concentrazioni minime di molecole biologicamente attive “trovano la loro strada” fino al loro particolare ricettore tipico di una specifica popolazione cellulare. Il che equivale più o meno alla probabilità di incontrare per caso il nostro vicino di casa andando in giro per Pechino; queste cose accadono, ma di certo non possiamo farci conto per la vita di tutti i giorni dove infatti, per essere sicuri di incontrare qualcuno, dobbiamo prendere appuntamento e uscire quindi dalla casualità degli incontri.
Il punto è allora abbandonare il concetto di urto casuale (e con esso l’idea che le reazioni chimiche nei sistemi biologici avvengano in una fase liquida propriamente detta) e cercare le tracce di una “fase ordinata e auto-organizzante” per la materia biologica, che renda ragione degli eventi (altrimenti inspiegabili) alla base della biologia. Solo reinserendo la vita all’interno del mondo fisico potremo sperare di uscire dall’impasse odierna. Per intraprendere questo progetto uno snodo cruciale è rappresentato dallo studio delle proteine. Sono infatti le molecole proteiche che, agendo da enzimi e quindi catalizzando reazioni chimiche altrimenti cineticamente impossibili, oppure costruendo le raffinate strutture che permettono alle cellule e ai tessuti di acquisire la loro particolare geometria (e quindi svolgere il loro ruolo fisiologico), svolgono il vero “lavoro biologico”.
L’idea classica di proteina è quella di un corpo compatto con un “core” (nucleo interno) idrofobico e quindi tenuto lontano dal solvente idrofilico (acqua) e con gli aminoacidi (i costituenti elementari delle proteine) idrofilici esposti sulla superficie. Le proteine sarebbero quindi delle macchine molecolari molto raffinate che gestiscono una complicata serie di interazioni con il loro microambiente (interazioni con piccole molecole organiche e inorganiche, legami più o meno transienti con altre proteine); e ciò attraverso zone molto specializzate della loro superficie (siti attivi) che “riconoscono” i partner molecolari corretti attraverso un meccanismo molto specifico di complementarietà stereochimica ed elettronica (il famoso meccanismo chiave-serratura che abbiamo studiato alle superiori).
A ben vedere questo è ancora una visione ad “agenti intelligenti” (le singole proteine) che, grazie alla loro peculiare struttura, “riconoscono” i partner corretti (l’enzima del passaggio successivo di un ciclo metabolico, lo specifico ligando da trasportare come, ad esempio, l’ossigeno per l’emoglobina) e non altri. Questo meccanismo, però, è molto insoddisfacente per rendere ragione della complessità biologica, a meno di non immaginare le molecole proteiche come veri e propri “diavoletti di Maxwell” che si vanno a cercare attivamente i partner giusti. È ancora sostanzialmente magia.
Se solo potessimo abbandonare il vincolo delle “proteine come corpi compatti rigidamente separati in interno ed esterno” avremmo fatto un discreto passo avanti verso il realismo. In questo modo, infatti, potremmo immaginare un continuum strutturato costituito dall’acqua che viene “scolpita” dalla struttura proteica (acqua legata) in comunicazione diretta con l’acqua cosiddetta “bulk”, che costituisce l’ambiente generale all’interno della cellula (che, non dimentichiamocelo è formata per il 70% d’acqua). A questo punto le reazioni chimiche potrebbero non avvenire più in un regime di urti casuali, ma in un ambiente chimico fisico fortemente strutturato, una sorta di fase continua ordinata a diversi ordini di grandezza. Le proteine allora, invece di essere oggetti compatti, sarebbero più simili a delle piccolissime spugne. Questo è proprio l’argomento di un articolo apparso recentemente sul giornale dell’American Chemical Society (Acs), dedicato alla modellistica matematica della chimica a opera di un gruppo di ricercatori romani, tra cui lo scrivente.
Analizzando circa 900 differenti strutture proteiche di diversa forma e grandezza attraverso gli “occhiali conoscitivi” forniti dalla topologia (le proteine sono considerate come reti in cui gli aminoacidi sono i nodi e i contatti fisici tra aminoacidi distanti sono gli spigoli) e dalla geometria frattale (le proteine sono immaginate come collanine variamente aggrovigliate) i ricercatori hanno dimostrato la fallacia del modello di proteina compatta e la sostanziale inesistenza del “core idrofobico”. Le proteine appaiono come spugne (con cui condividono importanti similitudini in termini di geometria frattale e quindi di distribuzione di porosità) che, proprio come le vere spugne, riescono a “gonfiarsi” creando quindi un reticolo di “acqua strutturata” che mette in comunicazione interno ed esterno, che si può immaginare come un primo indizio di una possibile “strutturazione generale” dell’ambiente cellulare.
Questo risultato apre molte vie alla speculazione, per cui potremmo immaginare una “rete di reazioni metaboliche” come supportata da una sorta di reticolo di tante proteine “tenute in comunicazione” dal solvente da loro stesse strutturato. Questo reticolo ammetterebbe una miriade di “possibili cammini” da attivare alla bisogna (rendendo così ragione della flessibilità delle costanti di reazione nei sistemi biologici). Da un diverso punto di vista, l’elevato livello di integrazione di un tale reticolo ci farebbe dubitare del fatto che ogni singolo gene (lo stampo per la sequenza di una particolare proteina) faccia “gioco a sé” nella storia evolutiva.
La scienza ha un gran bisogno di ritornare a porsi delle domande “generali” che coinvolgano la realtà profonda dei sistemi che studia per non annegare nell’auto-referenzialità: quello qui descritto è solo un piccolo esempio di ciò che si potrebbe fare anche a costi molto limitati. L’intera ricerca è stata infatti portata avanti con dati cristallografici di struttura disponibili gratuitamente sul web, elaborati con computer identici a quelli che abbiamo a casa; una buona strada per un Paese come l’Italia, ricchissimo di talento, ma un po’ in difficoltà quando si tratta di mettere su grandi e costose strutture di ricerca.