L’idea di poter abbattere gli edifici teorici innalzati un secolo fa da Albert Einstein fa gola a molti fisici e periodicamente c’è chi ci prova. I neutrini ormai hanno rinunciato al sorpasso sulla luce e si mantengono a rispettosa distanza dalla velocità limite einsteiniana, frenati anche dall’inesorabile verdetto emanato recentemente dal premio Nobel Carlo Rubbia. Ma se non sarà grazie a loro, potrebbe essere l’effetto fotoelettrico e la sua interpretazione a smentire il padre della relatività. Tra l’altro, forse non tutti sanno che non è stata la teoria della relatività a fargli vincere il Nobel bensì proprio la prima spiegazione della fotoelettricità, elaborata dal giovane Einstein nell’annus mirabilis 1905 e che ha rappresentato un clamoroso appoggio alla visione quantistica della luce concependola come un flusso di particelle dette fotoni. L’effetto fotoelettrico, che tutti sfruttiamo anche senza accorgi in numerose situazioni, è un fenomeno fisico che prevede l’emissione di elettroni da parte di una superficie quando questa viene colpita da un’onda elettromagnetica (luce) con certe frequenze.



Ebbene, qualche settimana fa su Nature è stato pubblicato l’esito di una ricerca (“Field-driven photoemission from nanostructures quenches the quiver motion” di G. Herink et.al.) svolta presso l’università di Gottinga (Germania) che descrive l’effetto di certe nuove nanostrutture in grado di provocare uno strano comportamento degli elettroni che sembrerebbe trasgredire le leggi einsteiniane dell’effetto fotoelettrico. Subito c’è stato chi – in verità, più i giornalisti che gli scienziati – ha visto in questo un cedimento della costruzione teorica del grande genio tedesco. «Ma non è proprio il caso di parlare di smentite» dice Fulvio Parmigiani, docente di fisica all’Università di Trieste. Parmigiani è a capo dei programmi scientifici del progetto Free Electron Laser presso il sincrotrone Elettra e si è appena trasferito all’università di Groningen (Olanda) per svolgere l’incarico di “Zernike professor” per il 2012; ha al suo attivo molti studi sul problema della fotoemissione e sui processi non lineari.



«Ho letto il lavoro di Herink e colleghi e l’ho trovato ben scritto e interessante. Devo dire però che Einstein e il processo fotoelettrico lineare non hanno nulla a che vedere con questo lavoro anche se nel testo il processo fotoelettrico lineare e il lavoro di Einstein sono citati, come incipit per introdurre l’effetto fotoelettrico non-lineare». Parmigiani ci richiama al fatto, ben noto a chi si occupa di scienza, che ogni teoria o modello ha delle precise condizioni di applicabilità, cioè delle condizioni di partenza che vengono indicate come ipotesi. Nel caso in esame, il modello proposto da Einstein per interpretare l’effetto fotoelettrico richiede la condizione che il regime sia lineare, ossia perturbativo.



Qui invece siamo in un a situazione di non linearità. «La fisica dell’effetto fotoelettrico non lineare è ben nota e discussa in letteratura a partire dal formalismo e dal modello introdotto per primo da L. V. Keldysh in un celebre articolo del 1964 (“Ionization in the field of a strong electromagnetic wave”). La fisica di questi processi non-perturbativi, ossia ad alto campo elettrico, si è sviluppata molto negli ultimi vent’anni e ha riguardato sia l’interazione con gas (atomi e molecole) sia con solidi. Questi effetti sono spiegabili con modelli elettrodinamici classici, oppure con modelli quantistici, nel qual caso il meccanismo principale si basa su un effetto tunnel in presenza di alto campo».

Il nostro interlocutore fa notare la peculiarità della ricerca descritta su Nature che «risiede nell’aver osservato e spiegato quantitativamente la fotoemissione non-lineare in nano sistemi, nel caso specifico punte nanometriche di Oro di circa 20 nanometri di raggio di curvatura: qui gli effetti di confinamento del campo modificano ulteriormente il processo di fotoemissione non-lineare, generando elettroni di alcune centinaia di elettronvolt (eV) partendo da impulsi laser di circa 50 femtosecondi (milionesimi di miliardesimi di secondo), ultra-intensi (con campi elettrici di 200 MV/m) con lunghezze d’onda comprese tra 0,8 micron e 8 micron (a cui corrisponde un’energia dei fotoni tra 1,55 eV e 0,155 eV). Naturalmente si tratta di effetti estremamente piccoli, come si evince anche dai diagrammi riportati nell’articolo, ma misurabili. In particolare, gli autori reclamano, a ragione secondo me, di aver scoperto e spiegato un nuovo regime di fotoemissione ad alto campo determinato dagli effetti di confinamento delle nano-strutture. In questa scoperta risiede la novità del lavoro».

Parmigiani osserva tuttavia che gli autori «restano invece molto vaghi e poco credibili per quanto riguarda le potenziali applicazioni. Avendo tempo a disposizione sarebbe interessante fare un lavoro più sistematico sulla questione dell’effetto fotoelettrico, così come viene insegnato oggi nelle nostre scuole e università. Ciò al fine di chiarire alcuni concetti e aspetti resi evidenti dalle moderne sorgenti laser e dalle nuove tecnologie di manipolazione dei materiali; ma non per questo in contrasto con la meccanica quantistica e con il modello dell’effetto fotoelettrico lineare così come proposto da Einstein».


(Mario Gargantini)