Investire sull’eccellenza nella ricerca e nell’innovazione in campo marittimo in Italia, area geograficamente situata nel cuore del mar Mediterraneo, significa contribuire allo sviluppo economico e sociale oltre che scientifico del Paese. In questo contesto, tra le infrastrutture di grande rilievo, l’Italia è dotata della nave oceanografica Urania, gestita dal CNR che celebra in questo fine settimana i venti anni di ricerche in mare: per l’occasione Urania sarà ferma e visitabile nel porto di Napoli.
La nave, della compagnia Sopromar, è lunga circa 61metri e larga 11 ed è in grado di ospitare un massimo di 36 unità tra personale scientifico ed equipaggio. A bordo ci sono: le strumentazioni che consentono la navigazione, cioè il posizionamento di precisione del mezzo stesso, come strumenti satellitari, radar e scandagli; i sofisticati strumenti per il rilievo della morfologia dei fondali (eco-scandagli multi-fascio); i correntometri doppler per misurare la velocità delle correnti marine; i sensori di temperatura e conducibilità (salinità) per definire la stratificazione delle masse d’acqua; una stazione meteorologica on-line (prima in Mediterraneo) e laboratori moderni per effettuare analisi in situ su campioni di organismi, d’acqua o di sedimenti prelevati dai fondali; sono anche disponibili apparecchiature per osservare e monitorare il fitoplancton.
Le attività si svolgono per 330 giorni all’anno e si imbarcano, a turno, diversi gruppi di ricerca con lo scopo di indagare dal punto di vista oceanografico fisico, geologico, biologico e chimico le acque del mare nostrum e talvolta anche del vicino Oceano Atlantico, del Mar Rosso e del Mar Nero. Per meglio conoscere l’importanza di questa infrastruttura, che rappresenta un bene strategico per la ricerca italiana, ne abbiamo parlato con il geologo marino Fabio Trincardi, Direttore dell’Istituto di Scienze Marine (ISMAR), uno dei centri di ricerca sul mare del CNR tra i più importanti in Italia che utilizza la nave oceanografica Urania.
In cosa consiste una campagna oceanografica?
Una campagna oceanografica è sempre un lavoro di squadra, fortemente interdisciplinare, attraverso il quale si cerca di affrontare un tema scientifico che necessita, per essere compreso, dell’acquisizione di dati diretti. Ad esempio, se una frana sottomarina con il suo movimento minaccia potenzialmente un’area costiera è necessario effettuare misure precise della sua morfologia, definire l’età delle sue fasi di movimento e caratterizzare la natura dei depositi coinvolti e dei livelli di debolezza lungo i quali si concentra la deformazione. Rimanendo su questo semplice esempio, serviranno a bordo geofisici che compiono rilievi batimetrici e morfologici, stratigrafi che si occupano di datare le età del movimento, sedimentologi e ingegneri che studiano la deformazione dei materiali e biologi che cercano di comprendere gli effetti del franamento sottomarino sulla biodiversità dei fondali. La campagna oceanografica diventa quindi il luogo di un “fare condiviso” dove si discutono i presupposti stessi dei diversi punti di vista, ipotesi e modelli, che un gruppo di lavoro ha elaborato in precedenza.
Con che modalità avvengono le richieste per poter accedere all’utilizzo di questa infrastruttura?
Da vent’anni il CNR segue il sistema di peer review adottato da tutti i principali centri di ricerca internazionali, secondo il quale ogni ricercatore che richiede l’utilizzo della nave per una ricerca deve sottostare alla valutazione di tre “pari” che leggono criticamente la proposta e la valutano su due piani complementari: il valore dell’idea scientifica e l’adeguatezza del piano di lavoro e dei mezzi tecnici per risolvere il problema proposto. Un terzo criterio di valutazione (una volta garantita la qualità della proposta) si basa sulla valenza applicativa della ricerca e, indirettamente, sulla capacità del proponente di attrarre finanziamenti, ad esempio attraverso progetti europei. In questo modo si è certi di spendere sempre nel migliore dei modi i finanziamenti destinati alla ricerca in questo settore avanzato, cruciale per il Paese.
Che tipologia di ricerche vengono svolte con la nave oceanografica Urania? Quali sono state le scoperte più inaspettate?
In campo geologico le più importanti scoperte riguardano l’accresciuta consapevolezza che anche i mari e gli oceani sono aree dinamiche. Sono state documentate numerose strutture attive sui fondali dell’area mediterranea: tra queste il vulcano Marsili, nel centro del Tirreno, che rappresenta il più grande vulcano attivo in Europa con un edificio alto più di 3.000 metri; l’Arco Calabro dove la placca dello Ionio scende sotto la Calabria in sollevamento generando terremoti distruttivi; e i bacini profondi del Mar Rosso dove si sta formando crosta oceanica e si preparano le condizioni per la nascita di un nuovo Oceano. In campo oceanografico si sono compiuti passi decisivi nella comprensione della circolazione a piccola scala e nella formazione invernale di acque fredde che, cadendo per il loro peso attraverso le scarpate continentali, portano ossigeno e nutrienti che sostengono la vita degli abissi.
Dal punto di vista biologico le scoperte principali riguardano gli ambienti estremi come i laghi di brine salate scoperti a 3.000 m di profondità e le aree di emissione di gas dove vivono molluschi in grado di nutrirsi di metano. Non meno importanti, le colonie di coralli profondi che vivono nelle acque più buie e fredde del Mediterraneo e il cui ruolo nell’ecosistema deve ancora essere compiutamente compreso. Sul fronte della paleoceanografia si è compreso l’impatto dei cambiamenti climatici repentini sulla circolazione del mediterraneo e sugli episodi di stagnazione che hanno portato ad un aumento di produzione primaria e accumulo di sostanza organica sui suoi fondali.
Quale è l’importanza per un Paese come l’Italia avere una nave oceanografica?
In tutti i Paesi avanzati, e oggi anche in numerosi Paesi emergenti, le navi ocenografiche svolgono un ruolo strategico a scala planetaria. Come cambierà la circolazione oceanica globale con la progressiva deglaciazione dell’Artico? Come cambieranno le rotte commerciali e lo sfruttamento delle risorse sottomarine in risposta allo stesso processo? Su questi temi vogliamo un punto di vista indipendente o ci accodiamo alle valutazioni di Paesi che investono di più? In Mediterraneo dobbiamo conoscere l’impatto delle attività antropiche su tutto l’ecosistema marino così come dobbiamo conoscere le aree geologicamente attive che costituiscono un fattore di pericolosità per le popolazioni e le infrastrutture costiero e, non ultimo, comprendere i fattori che controllano le fluttuazioni nella disponibilità delle risorse alieutiche. L’accesso alle navi oceanografiche consente inoltre la formazione di giovani ricercatori attraverso attività sul campo in un periodo in cui si tende a dare sempre più credito ai modelli di previsione.
Infine, la disponibilità combinata di navi efficienti, osservatori marini e strumenti autonomi permette di articolare moderne strategie di risposta rapida (il cosiddetto rapid enviornmental assessment) per la comprensione quantitativa di eventi estremi di origine naturale (es. l’impatto a mare di una piena fluviale di ricorrenza secolare) o antropica (es. la fuoriuscita di idrocarburi come nello sfortunato caso del Golfo del Messico).
Secondo lei cosa è necessario implementare dal punto di vista delle tecnologie marine per lo sviluppo della ricerca scientifica del Paese e cosa si sta facendo in merito?
È bene ricordare che l’Italia contribuisce alla ricerca europea con una cifra proporzionale al proprio Pil; se però il Paese non aumenta gli investimenti nelle proprie strutture strategiche (ad esempio le navi come Urania) e non definisce strategie precise in Mediterraneo e in oceano, aumentando la coesione tra i tanti Enti che si occupano di ricerca in mare, il rischio è che i nostri ricercatori migliori non siano in grado di “vincere” che una parte piccola dei finanziamenti che mettiamo in Europa.
Per la ricerca marina tre cose sono fondamentali e complementari tra loro. La prima sono le navi oceanografiche: in questa direzione, all’ottima esperienza di Urania in Mediterraneo, andrà affiancata una nuova nave oceanica la cui costruzione è prevista nell’ambito del progetto bandiera RITMARE, coordinato dal CNR con il contributo di tutti gli Enti di Ricerca e Consorzi Universitari attivi sul mare in Italia. Poi c’è il sistema osservativo oceanografico: numerosi Enti mantengono stazioni fisse o ancoraggi di lungo periodo presso le coste e lungo i fondali del Centro Mediterraneo. Si tratta di un patrimonio da mettere a sistema, colmando lacune geografiche, migliorando l’acquisizione di dati e promuovendo la trasmissione degli stessi in tempo reale, oltre alla possibilità di monitorare le più pericolose strutture geologiche attive negli abissi.
E la terza?
Sono i veicoli autonomi: si tratta di strumenti di superficie o di profondità, in grado di effettuare autonomamente misure più o meno sofisticate, che costituiscono una delle frontiere di sviluppo ingegneristico in cui altri Paesi sono più avanzati ma in cui il CNR e gli altri Enti hanno il potenziale per recuperare rapidamente terreno. Una strategia italiana su queste tre frontiere permetterebbe alla nostra vasta comunità scientifica di ricercatori marini di dialogare in Europa con i nostri colleghi in contesti importanti come, ad esempio, la Joint Programming Initiative focalizzata sul mare (Healthy and Pruductive Seas and Oceans).
(Michele Orioli)