Nella quasi totalità delle specie viventi, la natura dota le sue creature di un bagaglio di competenze e conoscenze utilizzabili in tempi molto brevi dopo la nascita. Pensiamo alle api o alle formiche: i loro piccoli sono arruolati immediatamente dopo la nascita per prendere servizio all’interno delle loro numerosissime comunità. E nessuno deve spiegare loro cosa fare e come: la loro innata “dotazione” li rende già abili a occupare il loro posto e la loro funzione nell’alveare o nel formicaio.



In altre specie, anche più evolute, è necessario un intervallo temporale perché i cuccioli apprendano come stare al mondo, ma è comunque un tempo non eccessivamente lungo, che consente di immagazzinare in maniera sufficientemente rapida ciò che è necessario per vivere. Il tempo, seppur breve, è dunque dato per l’apprendimento.



C’è però una specie animale per cui questa importante parentesi della vita dell’individuo è quasi esasperata. È una specie che non si distingue per una specializzazione particolare o per strane caratteristiche anatomiche, ma che fa della capacità di adattamento e di intervento sul mondo la propria cifra distintiva. È l’Homo Sapiens. Nessun essere vivente deve passare per un periodo così lungo di apprendimento e di maturazione prima di diventare realmente adulto e in grado di sopravvivere autonomamente e perpetuare la specie. La maturazione di un cucciolo di uomo, infatti, impiega più di quindici anni per offrire al mondo un esemplare definitivamente formato.



Questo è un unicum nel regno animale e obbliga i piccoli umani a un’attività di apprendimento che nessun altro essere svolge in modo così intenso e su un tempo così lungo. «I bambini sono le più grandi macchine per l’apprendimento in tutto l’universo», chiosa Alison Gopnik, psicologo dello sviluppo dell’Università di Berkeley, che con un gruppo di ricercatori della stessa università sta svolgendo un’interessante ricerca proprio sulle capacità di apprendimento dei bambini, che ha l’obiettivo di trovare nuovi percorsi e modalità di apprendimento per i computer.

Qualcuno penserà di trovarsi di fronte a una ben strana ricerca: normalmente, infatti, proprio a partire dalla necessità di apprendimento dei bambini, siamo portati a pensare che siano i percorsi di apprendimento infantili a poter trovare valido aiuto nelle macchine. E infatti su questi aspetti negli ultimi anni sono fiorite teorie e proposte concrete, con la relativa invasione di scuole e asili di strumentazioni più o meno avveniristiche basate sull’Information Technology. Ma, come spiega Tom Giffith, Direttore del Laboratorio di Scienze Cognitive Computazionali di Berkeley, probabilmente dovremo cambiare prospettiva: «I bambini piccoli sono in grado di risolvere problemi che ancora rappresentano un’autentica sfida per i computer, come per esempio imparare linguaggi e immaginare nessi causali».

Questo nuovo approccio al problema dell’intelligenza artificiale sta dando vita a un nuovo istituto di ricerca multidisciplinare presso l’Istituto dello Sviluppo Umano di Berkeley. L’istituto aprirà i battenti nelle prossime settimane e vedrà coinvolti psicologi, informatici e filosofi. L’attività di studio sta coinvolgendo una vasta modalità di esperimenti: attraverso l’uso di lecca-lecca, giocattoli che si muovono, che si illuminano e che producono musica i ricercatori stanno scoprendo che i bambini mettono alla prova le ipotesi, si figurano possibilità statistiche e si immaginano conclusioni più o meno reali mentre si adattano costantemente ai cambiamenti. Cosa che i computer difficilmente fanno.

Si potrebbe pensare che rifarsi a un’intelligenza irrequieta e sempre in movimento come quella del bambino non possa portare vantaggi evidenti a una macchina che deve svolgere certi tipi di funzioni, magari ben definite. Ma un minimo di riflessione, però, ci può fare accorgere del contrario: computer programmati con caratteristiche cognitive simili a quelle dei bambini potrebbero interagire in modo più intelligente, veloce e positivo per esempio in programmi di tutoring o di phone-answering, ma non solo: «Il nostro computer potrebbe essere in grado di scoprire nessi causali, partendo da casi semplici, come riconoscere che noi lavoriamo più lentamente quando non abbiamo preso un caffè, e arrivando a casi complessi come il riconoscere quali geni provochino una più grande suscettività ai disagi», dice ancora Griffith.

Inevitabile chiedersi perché proprio i bambini siano così interessanti. È la loro instancabile apertura alle cose nuove e la voglia di esplorare il mondo. L’esplorazione libera, in particolare, è la chiave nello sviluppo dei giovani cervelli. «La spontaneità e i giochi di finzione (come i travestimenti, o l’immaginarsi sotto le spoglie di altri, personaggi di fantasia o no, ndr) sono importanti tanto quanto gli esercizi di scrittura o di lettura», asserisce Gopnik.

Il cervello sano di un neonato possiede una dotazione di circa 100 miliardi di neuroni, che generano una vasta rete di sinapsi e connessioni neurali – circa 15.000 all’età di 2 o 3 anni – rendendo i bambini in grado di imparare linguaggi, socializzare e imparare come sopravvivere e svilupparsi nel proprio ambiente. Gli adulti invece stoppano la loro capacità di immaginazione concentrandosi su obiettivi giudicati più importanti e cruciali, frenando lo sviluppo neuronale. I giochi tipici dei bambini invece sostengono lo sviluppo del cervello, spingendo il bambino a immaginarsi in situazioni differenti da quelle legate alle circostanze nelle quali è posto, e quindi costringendolo a prendere decisioni come se fosse nei panni di un altro.

Ma non solo: i bambini sono anche capaci di seguire l’evidenza, come spiega Tania Lombrozo: «I bambini vanno per la via semplice quando non c’è una forte evidenza per un’alternativa, ma appena si accumulano evidenze sufficienti, le seguono». I computer potrebbero trarre benefici dall’osservare nuove possibilità di rapporti causa-effetto notando stranezze o piccole differenze rispetto a situazioni standard, ma senza dimenticare le capacità dell’adulto: «Abbiamo bisogno della speculazione libera (dei bambini) e della pianificazione intensiva (degli adulti)», commenta Gopnik.

A Berkeley dunque – conclude Gopink – il sogno è molto semplice: «Rendere più intelligenti i computer rendendoli un po’ più simili ai bambini».