Nell’accesa polemica, per niente sopita, che contrappone quanti sostengono che i cambiamenti climatici in corso sono di origine antropica e quanti invece li attribuiscono a una variabilità naturale del clima del nostro pianeta, si inserisce un’interessante ricerca condotta presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Syracuse (Stato di New York, Usa). I risultati di questo studio – che compaiono in un articolo dal titolo piuttosto criptico (An Ikaite Record of Late Holocene Climate at the Antarctica Peninsula), appena pubblicato dalla rivista Earth and Planetary Science Letters, a firma del professor Zunli Lu e collaboratori (del quale sono comparse alcune anticipazioni on line nei giorni scorsi) – mettono in risalto l’interessante ruolo che la “ikaite”, una particolare forma di mineralizzazione del comune carbonato di calcio, può svolgere come indicatore delle variazioni climatiche che si sono verificate nel passato.
Per chi non fosse addentro a tali questioni vale forse la pena di ricordare che gli scienziati possono valutare le modalità con le quali il clima terrestre si è evoluto nel passato solamente in modo indiretto, appunto tramite le tracce lasciate da vari fenomeni naturali sensibili alle condizioni climatiche, complessivamente indicati come “proxy climatici”: si tratta, per esempio, delle variazioni di spessore degli anelli di accrescimento degli alberi, dei contenuti dei sedimenti marini o lacustri, dei ritmi di crescita delle stalattiti delle grotte, delle caratteristiche dei sedimenti dei ghiacciai alpini o polari, ecc.
In questo senso, il suddetto studio dimostra che i sedimenti contenenti “ikaite” possono costituire un nuovo tipo di proxy climatico, basandosi sulla caratteristica peculiare della ikaite di inglobare nel suo reticolo cristallino delle molecole di acqua; questo minerale è in effetti una forma idrata (per la precisione esa-idrata) del carbonato di calcio, che ha la particolarità di formarsi e di mantenersi stabile solamente a basse temperature. Questa strana proprietà lo rende particolarmente adatto a registrare le variazioni di temperatura media che si verificano nel tempo negli ambienti marini freddi nei quali esso si forma. Non a caso il suo nome deriva dal fiordo di Ika, situato nella Groenlandia sud-occidentale, dove fu per la prima volta rinvenuto e studiato, negli anni attorno al 1963, dal geologo danese H. Pauly.
Si può in altri termini affermare che il reticolo cristallino dell’ikaite costituisce una specie di trappola per le molecole d’acqua dell’ambiente e del periodo in cui essa si forma, un po’ come le calotte di ghiaccio della Groenlandia o dell’Antartico costituiscono una trappola per le molecole d’aria dell’atmosfera del passato; misurando la quantità di isotopi pesanti dell’ossigeno contenuti in queste molecole, si può valutare se la formazione del minerale è avvenuta in un periodo più caldo o più freddo, in quanto tali isotopi nei periodi più caldi scarseggiano, mentre in quelli più freddi sono più abbondanti.
In questo senso la tecnica messa a punto dagli scienziati guidati da Zunli Lu, mescola vecchi e nuovi elementi, in quanto utilizza una metodica già nota (indicata sinteticamente come δ18O, che misura appunto il rapporto fra gli isotopi dell’ossigeno, di solito calcolato a partire dai gusci carbonatici di alcuni organismi fossili rinvenibili nei sedimenti marini o dalle bolle d’aria dei ghiacci), e il nuovo utilizzo della ikaite.
Particolarmente interessante è il fatto che Zanli Lu e collaboratori hanno studiato i cristalli di ikaite contenuti nei sedimenti marini estratti, con le ben note tecniche di carotaggio usate dai geologi marini, al largo delle Penisola Antartica, cioè di quella lunga propaggine del continente sud-polare che si estende verso il Sud America, che è nota costituire una zona di transizione, particolarmente sensibili ai cambiamenti climatici del pianeta.
Ebbene, dallo studio dei sedimenti di ikaite risalenti agli ultimi 2000 anni il team di ricercatori americani ha potuto valutare che anche in questa zona antartica si sono verificate quelle stesse variazioni secolari di temperatura note per l’emisfero nord come “periodo caldo medievale” (circa fra il 900 e il 1250 DC) e “piccola era glaciale” (1350-1750 DC). Ciò sembra definitivamente rigettare i dubbi avanzati da alcuni ambienti scientifici, che questi periodi climatici avessero caratterizzato solamente l’emisfero settentrionale del pianeta (per il quale sono ben documentati, sia scientificamente, che storicamente) e non l’intero pianeta.
Prendono di conseguenza più forza le osservazioni di quanti sostengono che siano eccessivi gli allarmi e le misure restrittive invocate dall’Ipcc, il ben noto organismo dell’Onu che studia le variazioni del clima terrestre, e che ne ha indicato la principale causa nell’eccessiva quantità di anidride carbonica prodotta dalle attività umane: se infatti variazioni importanti del clima si sono spontaneamente verificate in tutto il globo, non solo in ere geologiche, ma anche in periodi relativamente recenti, quando l’umanità non produceva quantità significative di anidride carbonica, è proprio l’uomo la causa principale di tali cambiamenti, o essi dipendono, in tutto o in parte, da altri fenomeni e dinamiche del pianeta, che non sono state ancora pienamente comprese?