La Pianura Padana non doveva essere una zona sismicamente tranquilla? Adesso è chiaro a tutti che non è così, ma per gli addetti ai lavori non è una novità. Anche se, come in altri contesti scientifici dominati dalla complessità, la pura analisi dei dati non è sufficiente per prevedere i comportamenti naturali, né per dominare la situazione quando la natura scatena tutta la sua potenza e la sua singolarità.



La pericolosità sismica di un dato territorio oggi non è una caratteristica genericamente descrittiva o solo qualitativa: ha tutta la forza e la rilevanza delle definizioni scientifiche, ma con queste condivide il limite di dover essere applicata in modo preciso, rispettoso delle condizioni nelle quali è stata definita. Nel caso in esame, la pericolosità sismica va intesa in senso probabilistico e sta a indicare lo scuotimento del suolo atteso in un dato sito con una certa probabilità di eccedenza in un dato intervallo di tempo, ovvero la probabilità che un certo valore di scuotimento si verifichi in un dato intervallo di tempo. Questo tipo di stima, dicono gli esperti dell’Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia), si basa sulla definizione di una serie di elementi di input (quali: catalogo dei terremoti, zone sorgente, relazione di attenuazione del moto del suolo, ecc.) e dei parametri di riferimento (per esempio: scuotimento in accelerazione o spostamento, tipo di suolo, finestra temporale, ecc.).



L’Ingv stesso da tempo si è fatto promotore di un’iniziativa scientifica che ha coinvolto anche esperti delle Università italiane e di altri centri di ricerca e che ha portato alla realizzazione della Mappa di pericolosità sismica, che descrive la pericolosità sismica attraverso il parametro dell’accelerazione massima attesa con una probabilità di eccedenza del 10% in 50 anni su suolo rigido e pianeggiante.

Ma cosa ci dice tale mappa e come utilizzarla? Ne abbiamo parlato con Claudio Chiarabba, Dirigente di Ricerca della unità funzionale di Sismologia sismotettonica e geodinamica dell’Ingv di Roma. «Il fatto che una zona sia classificata nelle mappe di rischio sismico indica soltanto che c’è una certa probabilità di terremoto nei prossimi 50 anni. Bisogna però aver ben presente che si tratta di valutazioni probabilistiche: quindi, ad esempio, il fatto che in certe zone ci sia una certa probabilità non significa che si verificherà senz’altro il fenomeno traumatico; come pure il fatto che in altre aree la probabilità sia minore, come nel ferrarese, non vuol dire che non accadrà nulla e che possiamo abbassare la guardia».



Questo ragionamento si applica in modo particolare alla Pianura Padana. Se osserviamo la mappa del rischio sismico, notiamo che in questa area del Nord Italia la pericolosità non è zero: la mappa è quasi tutta (tranne una parte del Piemonte e della Lombardia occidentale) colorata, dove il colore indica probabilità non nulla. Sono colori tenui, azzurri e verdi, ben diversi dai rossi e dai viola di altre zone tristemente note per eventi anche recenti. Anche qui però Chiarabba ci invita a non essere generici: «Quando si parla di un’area come la Pianura Padana ci si riferisce a un’estensione enorme e a regioni con una tettonica non uniforme. C’è un fronte delle Alpi che arriva a lambire la pianura e c’è il fronte esterno degli Appennini che è quello che si è attivato in questo caso; è evidente che siamo in presenza di dinamiche ben diverse».

Il sisma recente è avvenuto in una zona a bassa pericolosità sismica, al confine settentrionale della zona in compressione della catena appenninica, sede in passato di alcuni terremoti storici di magnitudo inferiore o pari a 6. Qui la sismicità si distribuisce lungo un’area allungata per circa 40 km in direzione est-ovest. I terremoti più forti della sequenza sono dovuti a un fenomeno di compressione attiva in direzione nord-sud, legato alla spinta dell’Appennino settentrionale verso nord, al di sopra della placca adriatica. L’estensione della zona attiva, confrontata con la magnitudo degli eventi principali, suggerisce ai tecnici dell’Ingv che a essersi attivato sia un sistema di faglie complesso, e non una singola faglia.

Le informazioni principali sulla Pianura Padana provengono dalle esplorazioni petrolifere. Parliamo di un’area a basso rilievo ricoperta da un ingente spessore – fino a 8 km – di sedimenti terrigeni Plio-Pleistocenici. Le fasi tettoniche compressive hanno prodotto pieghe asimmetriche, faglie inverse e thrust vergenti verso nord-nord-est che coinvolgono sia la copertura sedimentaria che la sequenza carbonatica mesozoica sottostante. A grande scala, nella Pianura Padana si distinguono le pieghe del sud alpino e, nella parte meridionale, tre strutture principali ad arco chiamate, da ovest a est: l’arco del Monferrato, l’arco Emiliano e l’arco Ferrarese-Romagnolo. In particolare, la struttura Ferrarese-Romagnola si può suddividere, a sua volta, in tre gruppi minori: le Pieghe Ferraresi, le Pieghe Romagnole e, più a est, le Pieghe Adriatiche, che costituiscono il vero fronte della catena appenninica. Le Pieghe Ferraresi sono sepolte al disotto di una sequenza Plio-Pleistocenica terrigena (di circa 2 km di spessore) a cui segue una sequenza carbonatica mesozoica.

Accanto a questi dati geofisici ci sono i dati di tipo storico, sui quali si sono condotti da diversi decenni studi molto approfonditi e documentati da parte di studiosi che si sono specializzati in questa disciplina: la storia dei terremoti. Chiarabba cita, ad esempio, le ricerche e le pubblicazioni di Emanuela Guidoboni che insieme a Gianluca Valensise e ad altri collaboratori ha ricostruito la sequenza dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni e il loro impatto economico e sociale. È un quadro pesante e drammatico, che ha molto da dire anche sulla zona del ferrarese che si presenta non del tutto tranquilla e al riparo da sorprese.

La documentazione disponibile presso la Biblioteca Ariostea e una serie di altri elementi ha permesso alla Guidoboni di stilare la cronistoria dei terremoti che hanno colpito Ferrara e provincia nell’ultimo millennio. Si inizia con una scossa di circa mezz’ora avvertita il 24 giugno 1119, per poi trovare segnalazioni di terremoti nei secoli XIII e XIV. Maggiore la documentazione per il ‘400 e il ‘500, con descrizioni di crolli e rovine. Per un terremoto nel marzo 1624 ad Argenta gli argini del Po di Primaro hanno ceduto e le acque hanno invaso il territorio con danni immaginabili. Ma anche recentemente non sono mancate le avvisaglie:serie di scosse hanno interessato l’Alto Ferrarese nel gennaio 2010; nel luglio 2011 altre scosse hanno prodotto danni a una chiesa; e all’inizio di gennaio di quest’anno la terra ha tremato ancora nel delta, a Goro e Mesola.

«Certamente, la conoscenza della distribuzione e della frequenza storica dei fenomeni sismici è un altro parametro importante per aiutarci a stimare la pericolosità e il rischio cui è soggetta una data zona. Ma, ancora una volta, non ci consente di affermare che un terremoto si verifichi oggi o fra cento anni. Ormai sappiamo che quasi tutto il territorio italiano è simicamente attivo, ma questo può solo spingerci a incentivare i monitoraggi e le costruzioni antisismiche».

L’opinione di Chiarabba sulla situazione italiana da questo punto di vista non è poi così negativa. «Certo, dipende dalle zone. Ma ormai sono molti gli edifici realizzati con criteri di sicurezza che possono resistere a un sisma di intensità come quello di sabato scorso, cioè intorno a un valore di magnitudo 6. Ovviamente questo non si può dire per gli edifici storici, che in Italia hanno una concentrazione elevata e richiederebbero una cura speciale».

E per i prossimi giorni cosa dobbiamo aspettarci? «Attualmente c’è una sequenza di repliche con decorso variabile. È presto per capire se dureranno poco o se si protrarranno di più. Non posso escludere che alcune repliche possano essere attivate da eventi più forti. Quindi non bisogna diminuire l’attenzione».

 

(Mario Gargantini)

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