Dunque la Pianura Padana non è quella tavola totalmente piatta come sembrerebbe a una prima superficiale valutazione. Il terremoto del 20 maggio scorso ha portato drammaticamente alla ribalta anche questa che era già un’acquisizione scientificamente documentata: tutta l’area che riconosciamo dalla colorazione verde delle carte geografiche non è una distesa liscia e uniforme ma è solcata da piccolissime dorsali, elevate sul resto della pianura di alcuni decimetri e talvolta di metri. La causa di questa fisionomia è la presenza di strutture tettoniche attive, più precisamente di faglie in movimento che determinano progressivi innalzamenti della superficie.
È quanto era emerso dallo studio di un gruppo di geologi dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), pubblicato alcuni anni fa su Annals of Geophysics, ma che ritorna ora di stringente attualità. Ne parla Gianluca Valensise, ricercatore dell’INGV e coautore dell’articolo, che spiega come i geologi hanno individuato le strutture sepolte sotto la Pianura.
«Come abbiamo visto in questi giorni, la Pianura Padana è una zona attiva e lo è per la presenza nel suo sottosuolo di grandi faglie sismogenetiche; che però non si vedono, perché vengono nascoste dai sedimenti che ricolmano la pianura per spessori anche di molte migliaia di metri. Alcuni anni fa ci siamo posti il problema di come si potessero identificare queste faglie attive, visto che i metodi classici, cioè le osservazioni dirette sul campo in superficie, non possono dare risultati».
Una prima risposta Valensise e colleghi l’hanno trovata tramite i geologi del petrolio: la pianura padana è stata sfruttata a partire dal secondo dopoguerra per estrazione di olio e gas a seguito delle prime scoperte fatte sull’Appennino piacentino Il petrolio, come è noto, si accumula nelle anticlinali, cioè quelle strutture geologiche che si creano negli ambienti compressivi come appunto la nostra pianura; queste strutture sono di solito guidate da una faglia sottostante: la faglia genera una anticlinale e occasionalmente può generare un terremoto. «Le strutture sepolte sono ben delineate dalle mappature che furono ottenute dall’ENI all’epoca d’oro dell’esplorazione petrolifera in Pianura Padana, ovvero tra gli anni ’40 e gli anni ’70 dello scorso secolo.
Queste mappature utilizzavano la tecnica nota come sismica a riflessione: in pratica veniva fatto brillare dell’esplosivo e con un gran numero di sismografi disposti lungo allineamenti opportunamente tracciati si misurava il tempo di percorso delle onde sismiche tra la superficie, gli strati rocciosi sepolti che riflettevano parte dell’energia, e l’arrivo dell’energia rimbalzata in superficie. Questo consentiva di “disegnare” il sottosuolo, e in particolare di delineare le anticlinali, strutture derivanti dalla compressione degli strati rocciosi simili alle pieghe che si formano su un tappeto spinto contro il muro. Poiché il petrolio tende ad accumularsi nelle anticlinali, conoscere l’esatta posizione di queste ultime consentiva di perforare a colpo quasi sicuro ed estrarre petrolio (o gas naturale)».
Il movimento della faglia profonda (da 5-10 km ad alcune decine di km) dunque genera le anticlinali che, come detto, arrivano a deformare debolmente la superficie topografica e, nei tempi geologici, finiscono per interagire con il reticolo fluviale, attirando i fiumi nelle depressioni e respingendoli dalle zone che sono in crescita.
«I dati disponibili a livello mondiale dimostrano che persino un grande fiume può spostare il proprio corso seguendo differenze di quota anche solo di mezzo metro o poco più. Abbiamo allora osservato bene i fiumi padani, constatando che vanno tutt’altro che diritti, facendo cose strane, deviazioni improvvise, curve anche di 90 gradi. Abbiamo fatto un inventario di queste anomalie fluviali e le abbiamo messe in relazione con le strutture sepolte. Abbiamo così potuto vedere che in molti casi le anomalie corrispondevano a strutture sepolte attive, anche associate a terremoti storici».
Tipico esempio descritto dai geologi dell’INGV è proprio quello della dorsale ferrarese, asciutta dal punto di vista idrologico perché i fiumi che scendono dall’Appennino le rimbalzano contro e vengono così deviati verso sud est, mentre quelli che vengono dalle Alpi vengono deviati verso nord est. I documenti storici ricordano come nel XII sec. un evento alluvionale abbia fatto uscire il Po dal suo alveo ma dopo l’alluvione il fiume non sia rientrato nella sede precedente, cambiando rotta verso alvei più bassi.
Di situazioni come queste ce ne sono parecchie in tutta la pianura; Valensise cita il caso del Secchia e del Panaro, che a un certo punto si avvicinano e poi si allontanano in prossimità di Mirandola. Più a sud anche il Reno ha tentato più volte di scavalcare la dorsale ferrarese ma senza esito; e ciò nonostante un intervento fallimentare, voluto nientemeno che da Napoleone, di farlo confluire verso il Po. Anche i romani ci avevano provato, «ma contro la tettonica non c’è nulla da fare: la dorsale continua a crescere e bisogna rinunciare a tentativi del genere».
Quindi è interessante sapere che la tettonica produce terremoti «ma prima ancora produce deformazioni del terreno senza implicazioni sismiche ma con conseguenze morfologiche; sono trasformazioni che hanno effetti rilevanti soprattutto sul reticolo fluviale e di conseguenza vanno ad incidere sulla vita delle popolazioni con forti impatti sulla loro storia, sull’economia, sulla vita sociale».
Ora però le cause di queste deformazioni, cioè le strutture geologiche sono un po’ meno nascoste, grazie al lavoro degli scienziati dell’INGV che sono riusciti a mapparle e a metterle nelle liste dei “sorvegliati speciali”.
(Michele Orioli)