Nel recente volumetto “Parlo dunque sono” (Adelphi), Andrea Moro tratteggia il profilo di 17 protagonisti delle scienze del linguaggio. Tra questi ci sono personaggi come Ruggero Bacone, che si collocano in un periodo nel quale si scorgevano i primi accenni a una scienza sperimentale come la intendiamo oggi. Così l’autore approfondisce il contributo del filosofo e scienziato inglese.
Tutti noi abbiamo una nostra teoria del linguaggio. Non è come in fisica o in chimica dove un certo timore reverenziale per la natura dei fenomeni osservati ci trattiene dal formulare spiegazioni: con il linguaggio, le cose vanno diversamente; forse per il semplice fatto che tutti parliamo, forse per la grande abbondanza di dati, fatto sta che ci si sente autorizzati ad avere una “spiegazione” di questo fenomeno. Questo stato di cose non caratterizza solo noi come individui ma tutto il percorso culturale della nostra civiltà attraverso i secoli. Il risultato è una sovrabbondanza unica nella storia del pensiero: praticamente ogni epoca, ogni cultura hanno espresso una teoria dominante sulla natura del linguaggio a tal punto che seguendone lo sviluppo possiamo avere un campione dello “spirito del tempo”, come una specie di questione omerica della storia dell’uomo. Siamo certamente di fronte a una situazione speciale.
Quando guardiamo un cielo stellato non possiamo fare a meno di congiungere tra loro le stelle che più risaltano: se non siamo particolarmente esperti, o comunque condizionati, ognuno di noi si costruisce le proprie costellazioni, alcune ovvie altre più ardite. Ma il cielo notturno ha anche un’altra particolarità, Sappiamo infatti che non tutte le stelle che vediamo sono necessariamente ancora attive: la luce che ci arriva è una luce antica, che potrebbe essere in viaggio quando la stella è già morta. Il cielo è dunque contemporaneamente simile a un museo di storia naturale e a uno zoo: accanto ad animali vivi vediamo l’impronta di quelli che non ci sono più. Dunque le nostre costellazioni non solo sono fondamentalmente arbitrarie, ma sono anche in qualche modo dei miraggi che possono anche essere fatti di fantasmi di stelle. Lo stesso accade per le teorie sul linguaggio. Ci sono tantissime opinioni: alcune attuali, altre decadute, altre ricorrenti; ma spesso non ce ne accorgiamo e anche per il linguaggio, come per il cielo stellato, ognuno si costruisce la costellazione preferita.
In Parlo dunque sono ho costruito un album di fotografie di alcune delle “stelle” che mi hanno colpito di più, lasciando libero chi legge di costruire la sua costellazione come crede; e non ho imposto criteri di selezione basati sulla loro vitalità: alcune fotografano idee morte ma comunque influenti. Ovviamente il solo fatto di aver scelto alcune istantanee tra le tante possibili altera lo scenario e in qualche modo lo riduce, ma son convinto che non si possa fotografare il tutto e che quindi solo attraverso riduzioni chiare si possa poi procedere per costruirsi un’opinione.
Un esempio lampante di come le idee sul linguaggio possano essere difficili da interpretare e talvolta sorprendentemente ingannevoli è dato da questa citazione: “La grammatica è la stessa in tutte le lingue come conseguenza di ciò che la costituisce, anche se possono esserci variazioni accidentali”. A che epoca corrisponde? Senza una data precisa, questo pensiero potrebbe benissimo essere attribuito a un linguista contemporaneo, di quelli che appartengono al filone inaugurato nella seconda metà del Novecento negli Stati Uniti da Noam Chomsky: da allora, infatti, sappiamo che, se facciamo astrazione dell’arbitrarietà con la quale si abbinano suoni e significati, la struttura delle lingue non può variare a piacimento, ma è vincolata dell’architettura neurobiologica del nostro cervello del quale è espressione.
Eppure il pensiero che sta alla base di questa citazione non si basa affatto su dati sperimentali ma è il frutto di una deduzione fondata su riflessioni filosofiche e, soprattutto, teologiche. Si tratta infatti di una frase tratta da un’opera di Ruggero Bacone, francescano, filosofo tanto famoso ed eccellente da meritarsi il titolo di “Doctor Mirabilis”, attivo a Parigi verso la metà del Duecento. Due vie diversissime, dunque, quella neurobiologica e quella teologica, praticamente incommensurabili, eppure convergenti. Ma a seconda del percorso che si è fatto per arrivare ad essa si aprono scenari diversissimi. Questo stato di cose, niente affatto isolato nel pensiero linguistico, ci costringe ad una riflessione inaspettata: nella scienza come altrove il percorso che porta ad una conclusione è decisivo quanto la conclusione stessa, perché è il percorso che decide i passi successivi. E siccome la scienza è un percorso continuo, saranno i percorsi aperti da una teoria – le nuove domande, cioè – a qualificarne il valore, non i punti d’arrivo. Come dire: non tutte le costellazioni che disegnamo sono utili per tracciare una rotta. La bontà della scelta si misura con la risposta della realtà.