Cosa si può chiedere a una struttura edilizia collocata in una zona a rischio sismico (cioè quasi ovunque in Italia)? Che sia resistente o almeno duttile, cioè possa tollerare grandi deformazioni a livello locale o spostamenti a livello globale, senza entrare in crisi: è questo un fattore di preponderante importanza perché la struttura ben si comporti sotto sisma, riuscendo a dissipare attraverso le sue proprie ingenti deformazioni tutta l’energia che il movimento tellurico le trasmette.



Per rispondere a queste richieste, ora che il dibattito è, inevitabilmente, salito di livello, servono più che mai idee chiare e proposte rigorose, oltre a un costante realismo. Ilsussidiario.net ne ha parlato con Elena Mola, ingegnere civile, con una tesi di dottorato presso l’Institut Polytechnique National de Grenoble sulla valutazione della vulnerabilità sismica degli edifici.



Come si studia e da cosa dipende la vulnerabilità sismica degli edifici?

Con il termine “vulnerabilità sismica” degli edifici si indica la suscettibilità di una struttura a subire un danno di un determinato livello a fronte di un evento sismico di una data intensità. Come si può dedurre dalla definizione stessa, essa dipende sia dall’edificio, in particolare dalla sua tipologia strutturale, dalle modalità con le quali è stato progettato, dalla sua età, dal suo grado di conservazione al momento del verificarsi dell’evento sismico, sia dall’evento sismico, in particolare dalla sua tipologia, dalla sua intensità, dalla profondità, dalle modalità di propagazione dell’onda (e quindi dai tipi di terreno presenti nella zona dell’epicentro) e dalla localizzazione dell’epicentro.



Cosa prevede l’attuale normativa antisismica?

Posto che non è possibile progettare una struttura non simicamente vulnerabile in senso assoluto – questo significherebbe affermare che anche per il sisma più devastante l’edificio non subirebbe alcun danno –  i criteri di progettazione “antisismica” codificati nelle attuali normative (in Italia entrati in vigore a partire dalla OPCM 3274 e oggi confluiti nelle NTC 2008) si basano sulla definizione di un livello di rischio considerato accettabile per le strutture e per gli occupanti in correlazione con la probabilità di accadimento di un sisma di una determinata intensità, che a sua volta è un parametro che dipende strettamente dalla definizione della cosiddetta “sismicità” del territorio di un Paese.

Ci sono differenze nello stabilire la vulnerabilità di un edificio di civile abitazione, o industriale o storico e monumentale?

In linea di principio no, perché tutti dovrebbero garantire, sotto un evento sismico di assegnata intensità, lo stesso livello di sicurezza degli occupanti. Questo però è vero in linea di principio solo per le strutture di recente costruzione e progettazione, mentre per le strutture esistenti, siano esse civili, industriali o storico-monumentali, si apre il delicato capitolo della valutazione “a posteriori” della vulnerabilità sismica, da farsi applicando specifiche disposizioni (di cui al Cap. 8 – Strutture esistenti, delle NTC 2008) che tengono conto del fatto che si tratta di edifici che, pur non rispondendo in toto ai moderni criteri di progettazione, tuttavia sono in grado di sopportare un sisma di una certa intensità esibendo danni accettabili e comunque senza mettere in pericolo la sicurezza degli occupanti.

In questo caso la verifica della vulnerabilità sismica in cosa consiste?

Coincide con l’esecuzione di una procedura di analisi strutturale che determini quel livello di intensità sismica, sempre definito in modo statistico, che la struttura è in grado di affrontare senza danni severi; se tale livello non è sufficiente, allora occorre procedere ad interventi di “adeguamento sismico”, vale a dire rinforzi locali o globali della compagine strutturale, per aumentarne la resistenza o la duttilità tanto da consentirle di affrontare un evento sismico dell’intensità desiderata senza mettere in pericolo gli occupanti.

Tali interventi sono vari e vanno progettati, studiati e realizzati caso per caso, e risultano particolarmente delicati per edifici storici e monumentali, laddove spesso non è possibile intervenire invasivamente oppure la struttura è costituita di materiali, quali la pietra a secco o le murature, la cui duttilità non può essere facilmente aumentata.

Ma in un Paese ricco di storia come l’Italia le costruzioni “antiche” da valutare e mettere in sicurezza sono tantissime …

Certo. Tuttavia, gli interventi di adeguamento hanno un costo economico che può essere elevato; inoltre, in zone a bassa sismicità e per strutture “ben progettate” (che cioè, pur non essendo rispondenti alle ultime normative, possiedono comunque sufficienti riserve intrinseche di duttilità) gli interventi di adeguamento non sono necessari; per questo la Normativa impone una rivalutazione completa della vulnerabilità sismica di un edificio (civile o industriale), solo in caso che su di esso vengano fatti importanti interventi di ristrutturazione, oppure cambi destinazione d’uso.

Se questo non accade?

 

 

Se non accade, come nel caso di capannoni o abitazioni costruiti prima dell’entrata in vigore della OPCM 3274 e mai stati oggetto di cambi d’uso o altro, la vulnerabilità sismica non deve essere ri-verificata né alcun adeguamento sismico è ad esse imposto, anche se nuove norme più severe entrano in vigore. Pertanto, in Italia, esistono molte strutture che, pur essendo “a norma”, possono non essere in grado di sostenere un sisma di intensità attesa pari a quella oggi prevista per la zona dove esse sono ubicate, visto che negli ultimi anni la sismicità assegnata alle diverse zone d’Italia è cresciuta, a seguito di studi che hanno approfondito la conoscenza della sismologia del nostro territorio.

Da qui scaturisce la necessità di un’attenta ri-valutazione della vulnerabilità sismica di strutture esistenti, soprattutto del nostro patrimonio monumentale, da anni invocata da più parti ma purtroppo, ad oggi, mai realizzata sistematicamente.

Esiste in Italia un censimento degli edifici vulnerabili?

In Italia non esiste un censimento degli edifici vulnerabili, o una qualche forma di registro gestita a livello nazionale. Le iniziative di salvaguardia del patrimonio, e quindi anche l’esecuzione di analisi di vulnerabilità sismica su edifici monumentali o storici, sono lasciate in capo ai Comuni o agli enti locali.

Nel caso di strutture civili e industriali di proprietà privata, come sopra ricordato, se non oggetto di ristrutturazioni o cambi d’uso, la valutazione della vulnerabilità sismica è lasciata all’eventuale iniziativa del singolo proprietario, che può, qualora lo ritenga necessario, rivolgersi a esperti, assumendosene in toto l’onere economico.

Nel caso dei cosiddetti “capannoni” industriali, quali sono i punti deboli ed è possibile costruirli in modo che siano sicuri?

I capannoni industriali prefabbricati monopiano sono una tipologia di struttura particolarmente diffusa nel territorio italiano, vista l’economicità e la semplicità di realizzazione. Molti di essi sono stati costruiti ben prima dell’entrata in vigore dell’OPCM e delle NTC2008 e quindi prima della nuova zonizzazione sismica. Pertanto, essi sono stati progettati, come era corretto ai tempi, senza tenere conto di alcuna sollecitazione dovuta agli eventi sismici. Questo non è di per se fattore negativo, come sopra ricordato, perché molte strutture possiedono, per loro intrinseca configurazione e realizzazione, come è il caso delle strutture in calcestruzzo armato gettate in opera (cioè la maggior parte delle civili abitazioni a partire dagli Anni ‘60), riserve di duttilità e resistenza tali da metterle in grado di sopportare egregiamente sismi di intensità anche piuttosto notevole.

Purtroppo, non è questo il caso dei capannoni prefabbricati: essendo costituiti di elementi separati (colonne, tegoli, plinti, tamponamenti) le cui unioni sono realizzate puntualmente – mediante “connettori” in acciaio oppure anche solo per contatto diretto – tutti i loro nodi strutturali non posseggono alcuna riserva di duttilità aggiuntiva, se non progettati specificamente per sollecitazioni sismiche.

E nei capannoni prefabbricati di nuova realizzazione? 

E’ senza’altro possibile, anche grazie all’innovazione tecnologica sopraggiunta nel campo delle connessioni a secco per elementi prefabbricati, raggiungere livelli di duttilità, resistenza e quindi, in ultima analisi, sicurezza, esattamente pari a quelle delle strutture gettate in opera.

Al contrario, nei capannoni prefabbricati esistenti, le esigue risorse di duttilità intrinseca nei nodi impalcato-colonne, le superfici d’appoggio molto ridotte delle travi sulle colonne, l’inadeguata resistenza dei collegamenti tamponamento-struttura, sono tutti punti deboli altamente preoccupanti che, in presenza di sollecitazioni laterali indotte da sismi anche di intensità non particolarmente elevata, possono condurre a crolli rovinosi e fatali: se il nodo trave-colonna cede o l’impalcato perde l’appoggio in corrispondenza della colonna si ha il crollo immediato di tutta la copertura; se salta la connessione pannello di tamponatura-trave, il pannello di tamponatura cade e, anche se è elemento non strutturale, con il suo peso può causare la morte di molte persone e ingenti danni.

Nel caso degli edifici antichi e storici, si può fare qualcosa per ridurre il rischio della distruzione?

Come sopra accennato, è senz’altro possibile progettare interventi di adeguamento statico e sismico anche di elevata raffinatezza, per offrire soluzioni mirate ed efficienti alla vasta gamma di problemi che possono manifestarsi in strutture pluricentenarie: dall’insufficiente resistenza degli elementi portanti, alla scarsa duttilità, alla mancanza di confinamento, all’insufficiente portanza fondale, al disassamento degli elementi verticali, alla fragilità delle murature.

Tuttavia, per gli edifici monumentali siamo in presenza di criteri di progettazione completamente diversi da quelli moderni; inoltre la documentazione storica disponibile non chiarisce il loro stato di conservazione, né ci dà indicazioni precise sulle caratteristiche dei materiali. Non è pertanto pensabile che possano esistere modalità di intervento standardizzate e tutto è demandato alla sensibilità e alla bravura dei progettisti e restauratori. A titolo esemplificativo, si può procedere con la cerchiatura di pilastri (solitamente mediante elementi in acciaio a secco per limitare l’invasività), contenere le murature mediante catene e tiranti in acciaio, migliorando così la risposta sismica globale, rinforzare le fondazioni, consolidare le murature a mezzo di reti elettrosaldate e malte da iniezione, iniettare le fessure negli elementi strutturali …

Ci sono esempi virtuosi?

Esistono senz’altro molti esempi virtuosi identificabili in quei Paesi da sempre abituati a fare i conti con l’elevata o elevatissima sismicità del suolo, primi fra tutti il Giappone e gli Stati Uniti. Qui le strutture, anche gli edifici alti ed altissimi nel nostro Paese ancora poco diffusi, sono progettate per resistere ad elevate sollecitazioni sismiche senza mettere in pericolo la sicurezza degli occupanti, ma manifestando solo danni locali (fessurazione di partizioni, rottura di serramenti …): pertanto anche durante eventi sismici di intensità pari a due volte quella dell’evento del 29 maggio, gli occupanti restano all’interno degli edifici e, terminata la scossa, riprendono le normali attività. Ciò dimostra che, sebbene non sia possibile progettare una struttura assolutamente sicura nei confronti di qualsiasi sisma, è tuttavia  possibile progettare una struttura che sopporti sismi molto intensi senza danni per gli occupanti. 

Ovviamente, non stiamo parlando di misure a buon mercato

Deve essere chiaro, infatti, a tutti, dall’uomo comune al committente, al progettista, alle autorità, che per raggiungere tali elevatissime prestazioni è necessario sostenere costi ben maggiori rispetto a quelli di una progettazione meno “prestazionale”: essi sono motivati da un maggiore utilizzo di materiale di elevata qualità (calcestruzzi ad alta resistenza e acciai d’armatura) e dall’adozione di modalità costruttive peculiari. Pretendere quindi che le strutture siano altamente prestazionali senza essere disposti a sostenerne i costi aggiuntivi è irrealistico e velleitario.

Per quanto riguarda invece la salvaguardia del patrimonio, gli esempi virtuosi sono da ricercarsi in quelle Nazioni che, come la nostra, hanno una lunga tradizione culturale alle spalle, oltre che problemi di sismicità del territorio, quali Spagna o Grecia.

Ci sono, invece, esempi virtuosi in Italia?

Nella salvaguardia di opere iconiche, si sono fatti interventi egregi: quali la valutazione della capacità portante residua statica e della vulnerabilità sismica della basilica di San Marco, nel 1996; oppure l’intervento, di altissimo contenuto tecnologico, sulla Torre di Pisa.

Non mancano dunque in Italia gli spunti, né le competenze, né le professionalità qualificate per una gestione più attenta ed efficiente sia del patrimonio monumentale, sia delle strutture esistenti non monumentali: serve però un’organizzazione e un sistema di catalogazione e manutenzione efficace e l’impiego delle risorse finanziarie necessarie alla realizzazione degli interventi di adeguamento.

 

 

 

 

 

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