Nella presente situazione di crisi, sia economica che generale di speranza in un futuro migliore, ciò di cui abbiamo meno bisogno è l’ideologia, cioè di quel modo di guardare il mondo dove le cose diventano irrilevanti, dove l’unica “cosa” che conta è l’idea preconcetta che uno si è costruito.

L’ideologia dominante che andava per la maggiore quando ero ragazzo era il marxismo. Tanti, anche fra i cattolici, sentivano l’attrattiva di questo “modo di non-vedere la realtà” (permettetemi questa sintetica, anche se brutta, definizione di ideologia) al punto che, pur mantenendo la fede in una serie di contenuti evangelici, percepivano il marxismo come l’unica modalità possibile per muoversi nella società, per regolare i rapporti tra le classi. Circa 35 anni dopo quegli “anni formidabili” farei fatica a identificare con chiarezza l’ideologia oggi dominante, se una dominante esiste; ma mi colpisce ancora e sempre più l’incapacità di guardare la realtà, l’assenza di disponibilità a farsi interrogare dai fatti.



Queste considerazioni mi vengono naturali nel leggere la vicenda del campo sperimentale della Tuscia, un piccolo lembo di terra vicino a Viterbo dove l’Università della Tuscia ha alcuni campi in cui fa le sperimentazioni sulle piante. Nell’ormai lontano 1998 il prof. Eddo Rugini, docente, tra le altre cose, di coltivazioni arboree e con un curriculum di tutto rispetto, aveva ottenuto dalle autorità competenti il permesso per piantare in campo aperto un certo numero di piante transgeniche di kiwi, olivo e ciliegio. Le piante in questione erano state create per modificarne la forma (mantenendoli di dimensioni ridotte) o per cercare di aumentarne la resistenza ai patogeni.



Occorre sottolineare che questi caratteri sono ricercati da molti decenni; il primo (le dimensioni ridotte) perchè un albero da frutto di grosse dimensioni rende molto costosa e pericolosa la raccolta dei frutti. L’importanza del secondo carattere (resistenza ai patogeni) è evidente se si considerano un semplice dato: circa un terzo del raccolto va perso in buona parte a causa di patogeni come funghi e batteri.

Chi sviluppa nuove varietà ha sempre cercato piante più resistenti per limitare il ricorso ai fitofarmaci (senza i quali, peraltro, le perdite di raccolto sarebbero più che doppie rispetto alle attuali) e per fare questo ha sempre “pacioccato” con i geni e lo ha fatto con metodi molto più invasivi e grossolani della transgenesi, come ad esempio la mutagenesi con radioattività, le ibridazioni forzate, la coltura di antere e molti altri ancora. Senza tutto il lavoro dei miglioratori genetici che hanno aumentato la produttività, facilitato la raccolta e migliorato la qualità, oggi il cibo costerebbe di più e molte meno persone avrebbero accesso a una sana alimentazione; anche se non è detto che di fatto si nutrano correttamente, ma questo è lasciato alla libertà di ciascuno.



Il campo sperimentale e le ricerche di Rugini si collocano quindi a pieno titolo nella tradizione di sperimentazione iniziata con la nascita dell’agricoltura e delle piante coltivate circa 12.000 anni fa.  Non solo. Chiunque affermi che la transgenesi rappresenta un metodo innaturale e invasivo per operare una modifica genetica non dice il vero. Chiunque sostenga che i metodi convenzionali di sviluppo delle nuove varietà (in uso da millenni e affinati dagli scienziati a partire da un secolo e mezzo) non comportino modifiche genetiche, tradisce solo la sua ignoranza.

Il campo sperimentale – autorizzato, lo ripetiamo, nel 1998 – è andato avanti per 10 anni, perchè tale era la durata del permesso. Purtroppo per alcune specie arboree 10 anni sono ancora poco perchè alcune iniziano a produrre fiori e frutti in tempi più lunghi; inoltre per alcuni caratteri è opportuno raccogliere dati in più annate; non ultimo – in un momento dove la ricerca in generale è fortemente sotto-finanziata e quella sulle piante lo è in maniera sistematica, se non osteggiata o distrutta quando coinvolge l’uso di piante transgeniche – mancano fondi per continuare le ricerche e confermare i dati positivi finora ottenuti.

Allo scadere del permesso, Rugini ha fatto richiesta di poter continuare la ricerca, cioè di poter lasciare le piante dove erano in attesa di tempi e fondi migliori. Distruggerle avrebbe significato distruggere un patrimonio costruito in tempi lunghi e con fatica, con finanziamenti pubblici e per il bene pubblico. La prima richiesta di proroga presentata nel 2009 è stata respinta per impossibilità di ottemperare alla normativa regionale vigente in merito al confinamento dei campi transgenici. La normativa regionale (con un regolamento approvato nel 2007 e quindi emanato ben dopo che era stata approvata la sperimentazione) è infatti talmente draconiana per le prove in campo che non è più possibile chiamarle “prove di campo”, perchè occorre costruire intorno alle piante strutture dotate di tetto, pavimento e filtri per impedire la dispersione del polline.

La normativa nazionale è ancora in alto mare in quanto i ministeri non vogliono (o non riescono) ad emanare i protocolli necessari a dare il via alla sperimentazione. Tali protocolli, vale la pena di ricordare, esistono, ma non sono mai stati approvati per il veto di questo o quel ministro. Rugini ha risposto cercando di argomentare ulteriormente che:

1) non esisteva alcun problema di dispersione di polline perchè i ciliegi e gli olivi transgenici o sono sterili o non hanno raggiunto la maturità sessuale, mentre alle piante di kiwi maschio, le uniche a produrre polline, venivano rimossi tutti i fiori;

2) che in queste condizioni sarebbe stato sensato continuare a mantenere il campo in attesa di trovare i fondi per finire la la sperimentazione. A questa seconda richiesta non è stata data risposta.

A questo punto è però intervenuto Mario Capanna, un laureato in filosofia (e lo dico senza disprezzo alcuno per lui o per la filosofia) che ha iniziato un’intensa campagna perché si arrivi alla distruzione del sito sperimentale: «È una situazione di stupefacente illegalità che va sanata al più presto – dice Capanna, presidente della fondazione dei Diritti genetici, a L’Espresso -. Per questo abbiamo chiesto ai ministeri dell’Ambiente e dell’Agricoltura e alla Regione Lazio di procedere allo smantellamento del campo. E, prima, di avviare rapidamente un programma «di ricerca sull’impatto di quelle stesse piante transgeniche».

Tralascio la consistenza del programma di ricerca proposto dal filosofo e mi soffermo sulle motivazioni. Secondo Capanna «…il procrastinarsi di tale situazione pone seri rischi di contaminazione genica di varietà tradizionali di ciliegio ed olivo che abbondano nella zona immediatamente a ridosso dell’azienda universitaria». Eppure, come sopra descritto, né i ciliegi né gli olivi producono polline! (i lettori possono leggere l’intervista a Rugini che espone nel dettaglio le sue  argomentazioni). Riguardo al kiwi, la premessa della lettera di Capanna è stupefacente perché inizia sottolineando «…l’assenza nell’area di sperimentazione di coltivazioni di kiwi…», facendo dunque presagire, secondo logica, che non esista alcun rischio di contaminazione (che non esisteva comunque visto che i fiori venivano rimossi, ma tant’è) e che quindi almeno il kiwi transgenico si potrebbe lasciar stare. Ebbene, sulla base di quella premessa, la conclusione a cui giunge è la seguente: «si propone di procedere alla loro immediata dismissione». (Domanda retorica: chi era il docente di logica all’Università Cattolica nel ’68? Se il pericolo, a sua detta, è la contaminazione delle colture circostanti, ma questa contaminazione non può tecnicamente avvenire, dov’è il pericolo?).

Questo fa pensare che a Capanna non interessino i rischi per l’ambiente o per la salute (rischi che, in questo caso, dopo circa 25 anni di lavoro e ricerca nel settore della genetica molecolare e della biologia vegetale non riesco neanche a formulare o immaginare) ma questi vengano solo paventati al fine di acquisire visibilità mediatica.

La lettera testimonia quindi la filosofia di fondo della Fondazione di Capanna e la posizione di molti movimenti di difesa dell’ambiente. Sottolineano il rischio. Parlano di contaminazione irreversibile. Argomentano di agricoltura e di biologia vegetale e discettano di miglioramento genetico senza mai averle praticate. Ma questa filosofia e questa posizione dimenticano la realtà, sia quella testimoniata dalla pratica agricola che quella enucleata dalle scienze che si occupano di questi argomenti (biologia, biotecnologia, genetica, tossicologia…), realtà che provo a condensare in due affermazioni.

 

A) Tutte le colture attuali sono state pesantemente modificate dal punto di vista genetico; senza tali modifiche sarebbero inadatte alla coltivazione, spesso immangiabili perchè tossiche e con una resa ridicola. Senza le colture dovremmo tornare a fare i cacciatori e raccoglitori per nutrirci di ciò che spontaneamente la natura ci fornisce. Peccato che solo una persona su mille potrebbe sopravvivere e a stento.

B) Tutte le colture sono piante deboli e non sopravvivono senza l’aiuto dell’uomo; se noi smettessimo di coltivarle, scomparirebbero nel giro di pochi anni. Questo permette di affermare con sicurezza che nessuna pianta coltivata, transgenica o meno, comporta rischi superiori a quelli posti dalle piante selvatiche.

A far maggiormente riflettere è l’acquiescenza dei ministeri alle richieste di distruzione. Nella lettera del Ministero per l’ambiente si legge: «…questo ministero ha provveduto ancora una volta ad invitare l’Università degli Studi della Tuscia a procedere all’immediata dismissione del sito di sperimentazione…». Nella lettera si parla di «…prioritaria necessità di assicurare la dismissione e la bonifica del sito…». Perchè prioritaria? Per uccidere del tutto la ricerca pubblica italiana nel settore? I migliori alleati che permettono alle multinazionali di mantenere il quasi monopolio del settore sono i burocrati ministeriali, i legislatori italiani ed europei e i movimenti ambientalisti. Senza questi attori la normativa sarebbe più sensata o applicata più sensatamente e lo spazio per la ricerca pubblica sicuramente maggiore.

La distruzione del campo sperimentale sarà un segnale chiarissimo mandato a tutto il mondo della ricerca pubblica: «è inutile lavorare su queste cose, tanto ogni ricerca non può uscire fuori dai laboratori e quindi non può produrre niente di veramente utile per il mondo». Ma quale ricercatore serio di fronte a questa prospettiva continuerà a lavorare in questo ambito?

Uccidendo la ricerca in campo ci stiamo non solo negando le (enormi) possibilità già sperimentate in laboratorio, ma probabilmente anche quelle in attesa di essere scoperte o inventate. Molte ricerche verranno terminate o nel migliore dei casi emigreranno verso paesi più accoglienti.

Purtroppo la scienza non è come un rubinetto che si apre e si chiude quando si abbia bisogno dell’acqua. Una volta chiuso il rubinetto, non si riapre se non dopo anni, perchè tutto un patrimonio di conoscenze, competenze, personale e strumentazioni è andato disperso e rimetterlo insieme può richiedere molto tempo, molto più di quello che possiamo permetterci. Solo per fare un esempio, se ci fossimo accontentati delle varietà di frumento e di mais di 100 anni fa, la nostra produzione agricola di queste due colture sarebbe tra 1/4 ed 1/6 di quella attuale, con conseguenze che vi lascio immaginare. Bloccare la ricerca rischia di causare enormi danni in un futuro non troppo lontano.