La fantasia degli scienziati ha immaginato più volte termini e nomi evocativi per indicare nuove ipotesi, teorie o scoperte. Alcuni esempi sono talmente vividi da essere ormai divenuti ormai termini del linguaggio comune: dal “Big Bang” che sta all’origine del cosmo, ai mostruosi Buchi Neri, alla sfuggente Materia Oscura e alla sua maggiore “parente” Energia Oscura questi e molti altri termini hanno decretato la diffusione anche presso i non addetti di tematiche per nulla semplici o immediate. Nella maggior parte dei casi l’impressione legata a questi termini è maggiore rispetto all’effettiva conoscenza dei fenomeni stessi. E su questa impressione scrittori, registi, sceneggiatori hanno costruito storie affascinanti e meravigliose destinate alla letteratura e al cinema di fantascienza.



Non sfugge a questa dinamica anche il binomio Intelligenza Artificiale. Ideato durante un convegno di visionari scienziati e ingegneri nel 1956, esso indica la possibilità di creare “qualcosa” che replichi in modo “artificiale” la nostra intelligenza “naturale” umana. E sappiamo quanta fantascienza si è nutrita dell’impressione di ciò che dovrebbe stare sotto il magico binomio, per esempio “2001 Odissea nello spazio” di Kubrick, o i più recenti “Blade Runner” di Ridley Scott, e – per l’appunto – “A.I.”, scritto da Kubrick e realizzato da Spielberg.



Nel tentativo di offrire elementi per introdursi in un campo di ricerca così vasto, affascinante e in perenne evoluzione, in un’idea di integrazione dell’offerta didattica universitaria, si sono svolti nelle ultime due settimane presso il collegio Camplus Rubattino di Milano quattro seminari proprio sul tema dell’intelligenza artificiale. Quattro esperti (il Prof. Marco Colombetti del Politecnico di Milano e la Dott.ssa Viola Schiaffonati, del gruppo di Colombetti, il Prof. Corrado Sinigaglia e il Prof. Carlo Soave, rispettivamente filosofo della scienza e biologo della Statale di Milano) si sono “aperti” a un gruppo di studenti, affrontando aspetti connessi all’umano sforzo di replicare qualcosa di ciò che sta nell’intimo della nostra personalità: l’intelligenza. I temi toccati sono stati le basi della logica, i meccanismi neurologici di apprendimento del cervello, i fondamenti per la costruzione di modelli di intelligenza artificiale, gli elementi che governano il meccanismo di evoluzione biologica.



Costruire macchine pensanti, esseri fabbricati dall’uomo che con l’uomo stesso si intendano, si relazionino, svolgano attività che richiedono responsabilità, creatività e iniziativa, automi che siano, appunto, intelligenti, cioè sappiano relazionarsi con sé, gli altri e il mondo che li circonda con l’apertura e la flessibilità che riconosciamo nell’uomo, comprendendo il senso di ciò che vedono e toccano, e capaci di apportare qualcosa di nuovo: si direbbe quasi un sogno a occhi aperti. E per lungo tempo proprio di questo si è trattato: un sogno, sì, ma reputato possibile. Ma è realmente così? È possibile questa immaginifica creazione?

I fondamenti di ogni sistema “intelligente” stanno nella logica, il modo attraverso cui da alcune premesse si elaborano conclusioni che rispettino regole formali certe. Aristotele da questo punto di vista ha imperversato per quasi due millenni, fissando nel modello del sillogismo il paradigma di ogni sistema logico. Da Leibnitz in poi si inizia a pensare alla possibilità che la logica sia un “calcolo”, qualcosa che permetta di portare l’oggettività del metodo matematico dentro le nostre diatribe e discussioni. Questa attività di ricerca sulla logica ha portato l’uomo a scoprire che non esistono logiche che si adattano a tutti i contesti, cosa che invece noi, esseri intelligenti, che pur diciamo il minimo indispensabile di quello che serve per intendersi, cioè non facciamo esplicitamente tutti i passaggi necessari per la comprensione di certe affermazioni, riusciamo naturalmente a fare.

L’analogo di questa frustrante scoperta è nella costruzione di modelli di sistemi artificiali intelligenti. Due grandi matematici, che sono alla base di tutta la costruzione dell’edificio informatico, Alan Turing e Alonzo Church dimostrano nella seconda metà del XX secolo che l’idea che si possa creare una macchina capace di “calcolare” qualsiasi tipo di problema è un’utopia. Esistono cioè limitazioni a quello che la macchina può fare. Insomma, il sogno della riproduzione artificiale dell’intelligenza così come è emersa nella grande storia evolutiva del mondo è ultimamente irrealizzabile.

Ciò che è accaduto è però solo apparentemente frustrante.

 

 

 

Dall’idea di una replica totale si è passati allo sviluppo circoscritto di “sistemi esperti” in ambiti ben definiti. Insomma è nata e si è sviluppata in qualche modo l’idea – molto pratica, che ha portato innovazioni e migliorie in molti campi della scienza e della tecnologia – che questo campo di ricerca consenta la creazione di sempre più sofisticate protesi delle nostre capacità in ambiti precisi. Non automi dotati di una qualche coscienza e libertà artificiale, che si possano adattare a ogni situazione, ma, in quanto protesi, macchine evolute e sempre controllate dal loro creatore.

Un esempio eccezionale sono stati gli ultimi robot mandati su Marte: in un ambiente sconosciuto hanno saputo adattarsi e portare a termine innumerevoli azioni. Ma in fondo il “governo” cosciente di quello che stava avvenendo era ancora qui, sulla Terra. Ed era un uomo, termine di un processo evolutivo imprevedibile e stupefacente, che ha portato all’emergere di una struttura cerebrale unica e irriproducibile, capace di interfacciarsi con il mondo esterno attraverso modalità -loro sì – incredibilmente sofisticate, che permettono agli esseri più evoluti di apprendere e farsi una raffigurazione efficace del mondo che li circonda.

Ma allora, se l’obiettivo utopico iniziale si è come perso nella nebbia, costringendoci a ripiegare su ambiti più ristretti, perché studiare ancora l’Intelligenza Artificiale? Certamente ha ragione Colombetti, quando argutamente dice che “è un po’ come chiedersi perché costruire auto di Formula 1. Attraverso le innovazioni che si inventano in F1, tutta la filiera automobilistica più o meno lentamente si rinnova e migliora. L’AI è la Formula 1 dell’informatica”. Ma c’è sicuramente di più: indagare le possibilità dell’AI consente il rinnovarsi della scoperta di quanto sia straordinario irriproducibile il punto di partenza, cioè noi stessi, esseri intelligenti, e di come la nostra struttura consenta a noi stessi di vivere coscientemente questa straordinarietà, cosa che nessun automa, robot o computer potrà mai fare. E il bello è che è scientificamente provato…